20 Settembre 2023

“Una radice alla sua fame”. I pittori vigezzini, contrabbandieri della bellezza

La Val Vigezzo come Tahiti. Buttogno come Hiva Oa, il luogo in cui Gauguin si rivela artista; Prestinone come Nuku Hiva, l’isola dove Herman Melville, il disertore, si scopre poeta; Toceno come Vailima, il perfetto posto, per Robert Louis Stevenson, “sotto il cielo selvaggio e stellato”, dove “contento ho vissuto, contento muoio”.

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Abito, abitato. Ogni artista ha bisogno di uno spazio sacro, perché l’opera, in fondo, è sempre teurgia. Senza un luogo – chiamiamolo: tempio – l’arte vive sotto commissariamento della commissione; oppure in una fuga nell’itterica, isterica malinconia – marcisce presto.

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Ci sono luoghi a cui si tende; altri a cui si torna. Ci sono tende: setaccio di stelle, velo dello sposalizio con le valli. Luoghi immaginati, immaginari, mangiati: il sangue sulla tela è più sangue, fa la resina, perché la pittura è carne viva, vera icona. L’artista cerca un luogo di innocenza – per lacerarlo e farlo tornare vergine. La Val Vigezzo sognata dal montanaro che dorme ai piedi di un albero, in Chiara pace di Carlo Fornara: sullo sfondo, Craveggia, Prestinone, le case con le tegole di pietra; e le nuvole, le tegole del cielo.

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L’artista: a volte costruisce tetti, a volte li scoperchia. Il dio selvaggio, predato dal pittore, lascia astri di istrice, spine, urla ossificate.

Antonio Dell’Angelo, Autoritratto, s.d.

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I pittori vigezzini leggono le nuvole come una mano su una mano, aperta in calice (bevi del mio destino, purché io esaurisca il tuo!). In un viso, vedono il fromboliere flâneur, affaticato d’assenzio, ma perfino i prodigiosi pascoli, in branco, la muta, verde verità dei campi, sete di assenza. Il dolore, sulla tela, è sempre sacrificale, ritrae un riscatto.

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Gli alberi, le più nobili creature: crescono verso la luce diramandosi nel sottosuolo – chiaro credo raffigurato nell’Oratorio di Lorenzo Peretti Junior. I volti dei pittori vigezzini non sono volti: sotto la cruna umana si cela la volpe, la lince alpestre, il nibbio. Ennesima magia della pittura: trasmutare, trasmigrare. Non si ingaggia un ritratto per ingabbiare il tempo – inutile prestigio – ma per vedere cosa ne sarà, nell’abitato del tempo. Un ritratto non invecchia, muta – la Donna all’acquasantiera di Carlo Gaudenzio Lupetti, pronta a diventare uomo poi pipistrello, ricca di quella vedovanza esibita, l’anatema, appena supposto, della calvizie; la donna-uccello fissata da Gian Maria Rastellini; la sorella, pietrificata in centauro da Lorenzo Peretti Junior; Il Carlacin di Enrico Cavalli, che diventa segugio, poi faina, infine lupo; Fornara che si autoritrae, sempre, come un monito, una minaccia, monile del riscatto, dito mozzato. Un giorno, capirai di essere condor, di essere riccio, oppure ramarro. Il pittore: sommo licantropo.

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La Scuola “Rossetti Valentini” a Santa Maria Maggiore, in questa topografia dell’anima, è l’Ararat: il luogo che unisce e che scioglie, la parola che chiarifica e la parola fraintesa, la colomba e il corvo. Il volo – e la voliera.

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Il pittore vigezzino non ‘cerca fortuna’: asseconda i crinali del caso, sa che deve sconfinare. L’abitudine valligiana all’abisso e all’altura ha coltivato in lui l’estro del passeur, l’arte del contrabbando. Nella Rapallo raffigurata da Cavalli vedo taurine chiatte, una lanugine di prato crescere sul mare; nelle avveniristiche marine – in filigrana, un Nicolas De Staël in fasce – di un pittore altrimenti canonico come Antonio Maria Cotti, intuisci il mastio montano di Masera, i rudi oratori, i chierici scalatori. Il montanaro va a caccia di nubi come il baleniere di capodogli: entrambi maneggiano il bastone e una stessa disciplina orchestra ascesi e catabasi. D’altronde, Carlo Fornara ricorda che da ragazzo alternava il lavoro dei campi alla scuola di pittura, giostrava zappa e pennello, studiava le vacche e Cézanne – diceva che il lavoro all’aria aperta, l’arte dell’aratura, conferiva saggezza al polso dell’artista, una remunerata energia.

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Dario Gnemmi, che dei vigezzini è stato il Roberto Longhi, usa spesso le analogie letterarie: per parlare di Fornara parla di Émile Zola, di Lev Tolstoj, cita la Waste Land di Thomas S. Eliot (“ha la stessa intensità di Marina di Mentone, lo stesso disperato grido che vorrebbe rendere certi dell’assenza come di un valore”); riguardo a Giovanni Battista Ciolina cita Flaubert e Fogazzaro; con Lorenzo Peretti Junior squaderna la biblioteca esoterica: Eliphas Levi, René Guenon, Allan Kardec. Il primato della vita nascosta: esigere il segreto dal proprio operare, sfinire l’ispirazione in operazione, fino alla fiamma bianca. Felice gergo: leggere i vigezzini insieme ai poeti; per aumentarne il magico marasma (cioè: far apparire ciò che non c’era, far sparire ciò che c’è). Ne suggerisco alcuni, legati alla stagione dei ‘bravi ragazzi’, i cavalieri di Cavalli, per tutti loro il Graal (Fornara; Ciolina; Rastellini; Peretti Junior). René Char, Wallace Stevens, Boris Pasternak, Georg Trakl, ad esempio.

Effatà, parola che scardina la lingua. In oltraggio al cuore iconoclasta.

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Ribadire l’icona dei luoghi, la postura dell’artista. In Francia i vigezzini non si francesizzano. Attratti dalla metropoli e dagli altri mondi – che sia Parigi o Milano, New Orleans o il Sudamerica – i vigezzini restano refrattari alle mode, alle moine della fama. Pittori ‘interrotti’ e occulti per indole, indocili e indovini. Individui. Artica verità contadina: il dono, per avverarsi, deve crescere nascosto, sotto terra, fermentare nelle cantine. La primizia va spartita con pochi: ostia di luce che cauterizza la ferita tra mondano e oltremondo, tra immondo e purificato.

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C’è l’arte che si fa merce – il lavoro – e l’altra – l’opera – che gareggia con il creato, è nuova creatura.

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Uscito fuori di sé, ad apprendere la sapienza nelle accademie parigine, dopo aver avuto accesso alle scoperte di Adolphe Monticelli, Van Gogh, Munch e Cézanne, il pittore vigezzino rientra in sé: le sue valli, allora – di valligiani perfino ignobili – gli paiono Tahiti, il luogo dove stanare gli dèi decapitati e cannibali. Dove alloggia l’artista rinasce l’angelo: il rio che scava anse rocciose e sgrana i velami della neve è evangelico.

Giovanni Battista Ciolina, Alla finestra

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Non ho detto l’idolo, manufatto fatto ad arte per imbonire le masse, per far soldi e richiamare accoliti; icona, semmai: la figura che spaventa. All’arte ci si avvicina uno ad uno, nel riserbo.

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Che restino ‘incompresi’ non è incredibile, non è la posa di chi si è nutrito dei ‘maledetti’ francesi. Per Carlo Fornara, il Rimbaud dei vigezzini, Prestinone è Aden e Harar, luogo della scomparsa e dello sconforto, dunque spazio mistico. Non c’è miglior pratica che fiorire in oblio nel luogo natale – spericolato credo di Lorenzo Peretti Junior, pittore druido, pittore rosacrociano, che ha carpito l’arte della trasmutazione e di notte si mutava in civetta, in esergo di fonte, in re delle serpi.

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Così scrive Dario Gnemmi a proposito di Lorenzo Peretti Junior, frasi da sigillare sugli incestuosi incastri di un oggi famelico di successo, di ribalte e ribaltine:

“Se un artista può operare per sé, quasi sfidando i limiti del proprio sapere o gli steccati apposti dalla critica e dagli inevitabili giudizi a tratti severi, a tratti corrivi di un pubblico in molti casi privo di formazione e d’informazione; se un artista si contenta di scoprire e, non avendo bisogno di vendere, non mostra e non si fa vedere; se un artista è talmente colto da aver scoperto l’essenza stessa della sua volontà creativa in potenza e di volerla poi tradurre in atto nella piena libertà da vincoli di poetica comune o di interventi in collettive, quell’artista, a costo di essere definito misantropo, ha forse scoperto il principio del suo equilibrio”.

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Gli altri si pentono o si danno pena: pur sempre di una resa si tratta. L’artista, invece, è armato di pudore: sa tagliare le braccia al giorno e cresceranno prati sulle case prima che tu lo denudi. Della sua rinuncia, Carlo Fornara fa leggenda, legatura e sequela, un epos di pascoli: “Sono un piccolo grillo che su l’orlo del suo rifugio canta la sua modesta serenata al sole di Dio, ai fili d’erba, ai fiori, alle nuvole, e nulla chiede se non una goccia di rugiada alla sua sete, una radice alla sua fame”, scrive, nel 1936, a chi lo voleva accademico d’Italia. Dietro la serenata non c’è, è ovvio, la serenità, ma la serietà di chi non cede al farfugliamento delle medaglie, dei ruoli, dei premi. Si diceva “Don Chisciotte… di un ideale di giustizia, partiva a lancia abbassata contro i mulini a vento delle birbanterie umane”, rifiutava le mostre e di far mostra di sé, “Si rinchiuse nella più severa solitudine anche per effetto del disgusto provocato in lui dal carnevale della così detta arte moderna” (così Ettore Marangoni, “Cultura moderna”, 1945).

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Il prototipo di questi artisti ‘interrotti’, pioniere di una leggenda per sempre giovane, resta Carlo Gaudenzio Lupetti, il genio di Prestinone, flamboyant a Parigi, ardito ‘animalista’ in Italia, destinato a restare tra Léon Cogniet e un mondo di profezie selvagge. Se la morte è l’antefatto di un prestigio da giungla, Lupetti restò ragazzo, perenne, il pittore dell’innocenza e dell’avvenire. “Quando il tifo recise il fiore dei suoi anni, si volle parlare per Lupetti di una morte tragica a causa del veleno o in duello. La realtà era purtroppo assai più prosaica e non lasciava spazio al sogno. Gli amori di Puškin e di Onegin erano soltanto i residui fantasmi di una vita trascorsa troppo in fretta, di una promessa spentasi brutalmente”, scrive Dario Gnemmi. La citazione non è codice in subaffitto: la più nota opera di Lupetti, La zingara e i suoi animali d’ambulanza (1854) ha una tenera, chiaroscurale parentela con il poema che tre decenni prima Puškin dedica a Gli zingari; anche lì c’è “il calmo accampamento”, la campagna con i cavalli e l’“abbaiar di cani”, “i fuochi ovunque spenti”, il “notturno vapore”, il quasi sonno. Che di Lupetti – spettro e idolo dei poeti vigezzini – anche la morte sia un imbroglio, un azzardo, è stimmate di vampiro, l’estrema beffa del pittore irrisolto, il colpo di teatro di chi da quel corpo vuol cagliare oro, ignaro di avere già materia che arde tra le mani. Occorre attendere la colatura del caos per ricavare l’amore. Le Vacche al pascolo – fissatele bene – sono già gli studi di tigre di Delacroix: bovini carnivori, la loro indifferenza è il preludio di un assalto, prevalenza di artigli – anche quel cielo va a morsi. 

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Qualcosa tiene insieme gli anonimi dipintori delle chiese montane e i moderni che dopo l’abbuffata francese ritornano nei loro luoghi, nella loro Ur. La levità del distacco, l’avvenenza del disgusto, miniare il proprio io fino a smagnetizzarlo nell’oro, nell’azzurro, in una più ampia pietà.

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Il culmine dell’arte: che l’artista – totalmente tale, senza distinguo – scompaia. A noi resti l’opera, da attraversare.

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Da vertice a vertice, nel vortice: chi costruisce ponti chi supera d’un balzo, sperpera.

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L’artista vigezzino è sempre all’alba, all’erta. Cioè: vive nell’albedo. Deve ancora compiersi: il cigno diventerà fenice, l’unicorno si trasformerà nel leone che divora il sole. Per ora, abbandonateci in questo bianco – abbaglia.

Davide Brullo

*La mostra “Vigezzini di Francia”, per cui è stato scritto questo testo, è in atto presso Casa De Rodis a Domodossola, custode della Collezione Poscio, fino al 26 novembre 2023

**Questo testo è dedicato a Dario Gnemmi, avventuriero del linguaggio, conosciuto attraverso gli occhi-stelle-alpine di Marcovinicio; in copertina: Gian Maria Rastellini, Sognando, 1891

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