Nel 2014 l’editore Raffaelli – che ha appena compiuto trent’anni di militanza editoriale in direzione autarchica e contraria alle odierne mode – pubblica un libro insolito, insolvibile, risoluto. S’intitola Ospedale Britannico, lo ha scritto un poeta argentino pressoché sconosciuto, Héctor Viel Temperley;nell’introduzione, intensa, Hugo Mujica, il poeta-monaco, tra le voci più potenti della poesia sudamericana, ne scrive come di una esperienza mistica, anzi, cristologica:
“La poesia di Ospedale Britannico nasce dalla carne, è carne, carne viva; è il lungo processo di tramutare la vita, la sua malata e dolente vita, in senso, e quindi riportarla alla parola, darle voce… Tutto il libro è il percorso di una catabasi… Viel Temperley entra in questo dolore, sprofonda nel suo corpo ferito per mezzo e per mediazione del corpo di Cristo”.
Dell’autore non si sa nulla. Letteralmente. Si sa che è nato nel 1933 a Buenos Aires, che è morto nel 1987, poco dopo aver pubblicato Ospedale Britannico – cioè Hospital Británico – che è opera incurabile e al di là della cruna del tempo, del ‘pubblico’. Come le delicate pitture dell’Angelico nelle celle di San Marco, è opera destinata ai posteri postulanti, ai poveri di tutto, a Dio. Di Viel Temperley si sa che non apparteneva ad alcun clan letterario, che ha scelto di stare ai margini, che ha pubblicato tanto – nove libri: il primo, Poemas con caballos, del 1956, per altro, premiato dalla Sociedad Argentina de Escritores – ma per lo più per sé, smangiato da una vita troppo vasta o da un tumefatto senso della sprezzatura, della disperanza.
I giudizi intorno all’opera di Viel Temperley sono inversamente proporzionali alla sua notorietà: clamorosamente ignorato in vita, la sua Obra completa è stata pubblicata da Ediciones del Dock nel 2003 come “una poesia tra le più eccezionali e importanti della letteratura sudamericana degli ultimi decenni”. Nel 2011 negli Stati Uniti sono stati tradotti The Last Books of Héctor Viel Temperley. Nel 2016 un lungo articolo pubblicato sul “Clarín”, Héctor Viel Temperley: el éxtasis del místico, avvicina la sua poesia, che procede per visioni, enigmi, effrazioni verbali a quella di Alejandra Pizarnik (“Come la Pizarnik anche Viel ha improntato il suo lavoro poetico verso una sorta di ‘misticismo surrealista’”). In un repertorio poetico pubblicato lo scorso anno in Argentina, se ne scrive in questo modo: “I suoi libri sono passati pressoché inavvertiti per molto tempo. Quando Rodolfo Fogwill ha cominciato a farlo conoscere, diventò un autore di culto, idolatrato da almeno due generazioni di poeti”.
Tutto sommato, in Italia in pochissimi capirono il carisma di Viel Temperley, quella poesia senza padrini né fratelli, improntata intorno a un crudo cristianesimo, scurrile, sulla soglia della morte. La poesia di Viel Temperley, vitale, che poco cede al lettore, si spinge fino al soffocamento, alle vaste piane della morte.
Ampio angolo d’estate
Non morirà mai la sensazione che il demonio può servirsi dei cieli, e delle nubi e degli uccelli, per osservarmi le viscere?
Amici morti che camminano nei pomeriggi grigi verso frontoni di pelote basche, solitari: Il ruffiano che mi guarda sorride come se io potessi desiderarla ancora.
Si annuvola e si snuvola. Mi sprofondo nella mia carne; mi sprofondo nella chiesa di fogna a cielo aperto in cui credo. Attendo la resurrezione – aspetto il suo scoppio contro i miei nemici – in questo corpo, in questo giorno, in questa spiaggia. Niente può impedire che sulla sua Gamba mi frustino come cotta di maglia – e senza nessuna Storia ardano in me – le capocchie di fiammifero di tutto il Tempo.
L’ostensione è ovunque; poesia come sudario, impressa nei veli. Viel Temperley fa dell’ospedale la sua Verna, la cronica dell’estatico, nido dove sverna il Volto:
“Uccelli marini che tornano dalla velocità di Dio nella mia testa: Non mi separo dalle chiare parallele di legno che tatuavano la pelle delle mie braccia vicino alle ascelle; non mi separo dall’unica dimora – senza pareti né tetto – che ho avuto nell’igneo brillante di straniero dal centro di vuoti cortili d’estate, e sono fame di sabbie – e fame di Volto insanguinato”.
Una sezione del libro s’intitola Ho la testa bendata; il poeta specifica che si tratta di “testi profetici”:
“Il Mio Corpo – con uccelli come bisturi sulla fronte – entra nella mia anima”
“Il sole, nella mia testa, come tutto il sangue di Cristo su una parete di anestesia totale”
“Santa Regina dei misteri del rosario dell’ascia e delle bracciate lontano dal chiodo: Prega per me che sto in una zona dove non avevo mai approdato con manovre di Cristo in testa”
In un testo che s’intitola, insieme a molti altri, Mi hanno tolto dal mondo, il poeta, livido di profezie, dice:
“Mi copre un’armatura di farfalle e sto nella camicia di farfalle che è il Signore – dentro, in me”.
Nelle rare fotografie che si trovano in rete, Viel Temperley ostenta un corpo muscolare, il volto tra lo spaesato e il seduttore. In una di queste, è di fianco a un edificio con l’effige della “Legion extranjera”. Ha collaborato, sporadicamente, con “La Nacion”. Forse ha militato, forse ha mollato. Il male gli ha tolto ogni possesso – e lì, privo di sé, puro vuoto, ha visto il Dio e lo squalo.
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L’unica intervista realizzata a Viel Temperley
Viel Temperley è nato a Buenos Aires nel 1933. Con il suo primo libro di poesie, a 23 anni, ottiene un premio dalla Sociedad Argentina de Escritores. Tra quel libro e l’ultimo sono passati trent’anni. I suoi lettori, benché rari, dicono che Viel Temperly è uno dei massimi poeti, oggi. Ha appena fatto una radiografia, è a letto, con una coperta piegata sul petto.
Ovunque, quadri dipinti da lui e dalla moglie, Luisa. La biblioteca è alta, ricoperta di fotografie; un Cristo azzurro è accerchiato da una boscaglia di piante. Viel non è poeta dai sussurri mallarmeani. Non vuole “un testo finemente reale, che sarà la spiegazione orfica della terra”, né “un Cosmo organizzato sotto il segno della bellezza”. Dice “i miei testi devono essere un mondo intero”.
Gli dico che sembra entrato sulla scena poetica all’improvviso, nell’ultimo anno, eppure, ha pubblicato nove libri, tra cui Legión Extranjera (1978), Crawl (1982) e Hospital Británico (1986).
“Penso sia colpa mia. Non ho fatto nulla per farmi notare. Non sono stato in alcun gruppo. Evito le presentazioni. Fino a Carta de Marear, uscito nel 1976, avevo pubblicato cinque libri… volevo smettere con la poesia, la sentivo troppo rigida, legata a un cliché: sapevo sempre dove andava a parare. Più tardi, ho appreso una poesia che mi ha permesso di nascondermi, di evadere, di costruire un mio mondo”.
Da cosa doveva evadere?
Da ciò che è eccessivamente chiaro. Mi distruggo in ogni immagine per nascondermi, ma traccio citazioni, personaggi che fanno di poesie distinte un unico poema. Così, quando ho avuto l’opportunità di mandare tutti al diavolo, ho scelto, con un titolo, Crawl, di testimoniare la mia fede in Cristo, che non avevo mai nominato prima: dicevo “Dio”, semmai, riferendomi a un dio panteista, non al figlio, all’uomo. Non so dove avviene la mia poesia. Concludo dicendo che non so nuotare, che non so mettere le mani nell’acqua… e che per scrivere Crawl ho dovuto imparare a pregare, ad avere un rapporto diverso con la liturgia e con il respiro. Infine, riesco a dirlo, dicendo questo, quello, lui, con la minuscola, perché in quel momento della mia vita spirituale sarebbe stato un abuso scrivere “Gesù Cristo”. Nel libro lo nomino soltanto una volta. Non possedevo ancora il nome.
Più che la ricerca del Nome, la sua poesia pare la ricerca di un nome. O si ritiene un poeta religioso?
Poeta religioso? No. In nessuna maniera. Mistico, surrealista, qualsiasi cosa, ma non religioso. Parlo di marinai e di nuotatori. Gesù Cristo appare tramite un ruffiano, un barbone, un accappatoio. Dico, “fino a baciarmi il Volto in Gesucristo”, intendendo che Cristo mi aveva sollevato per permettermi di baciarlo. Baciavo lui, eppure me stesso, e questo mi interessava. Non mi rivolgo a lui dimenticando il mio amore per quella ragazza di fianco alla lampada: lo cerco proprio lì. Mi è bastato nominarlo una volta. Dare testimonianza. Dopo, ho messo il coperchio, con disegnato il marinaio della scatola di sigarette John Player… Credevo esistesse. Me l’ha presentato un ragazzo in una stanza coperta di fiori. Lo volevo conoscere. Poi ho smesso di vederlo e l’ho ritrovato, molto tempo dopo, su un pacchetto di sigarette. L’ho sognato con il volto di Cristo. Dio è identico a un marinaio, forse un marinaio ebreo, per via di quella mascella squadrata e solida. Invece di un salvagente, ho chiesto a un amico di donarmi una corona di spine. I versi sono puro nuoto.
E per quanto riguarda il leitmotiv “Vengo alla comunione e sono in estasi”?
Accadde un giorno in cui ero terribilmente angosciato, sono entrato nel Santissimo, la chiesa qui dietro. Tuttavia, non sopportavo di essere lì dentro. Sono uscito, mi sono seduto sull’erba, nella piazza, e all’improvviso ho avuto una sensazione di estasi straordinaria… Mi sono detto che era un inizio. Nel primo verso dico, “sebbene facessi la comunione come un annegato”. Un’altra volta, attraversavo il porto, in un filare di platani, ho sentito l’assalto di Dio, il colpo ai fianchi di Dio, e ho iniziato a piangere. Ricordo che mia madre, quando ero molto piccolo, abitavo a Vicente López, ogni mattina mi portava al fiume, cariandomi sulla sua schiena. Non sapevo ancora camminare. Un giorno sono caduto in acqua. Ricordo di essermi seduto tranquillamente sott’acqua, senza percepire la mancanza di vita, di respiro, del mondo. Provai una specie di estasi: vidi un muro color terra spaccato dal sole, un manto arancione davanti ai miei occhi. Ero felice.
Ne El Nadador scrive di “un’acqua così blu che l’uomo/ la varca, vive il respiro”.
Respira il cielo. Per questo in Crawl appaio tranquillo, finché, solo, sulla spiaggia, ci sono le nuvole, vedo il sole e due figure bianchissime che vegliano sulle sabbie. Quel libro sarebbe stato Hospital Británico. Ero già al Británico. Mi sono ammalato quando ho visto mia madre che chiedeva di morire, ed è morta, quattro giorni dopo che mi hanno operato. Abbiamo passato tre mesi a letto. Mi hanno operato e dopo due o tre giorni esco in giardino. Ero accompagnato da mia moglie. Ci siamo seduti davanti al padiglione. Volavano diverse farfalle e c’erano alberi di eucalipto molto belli, nient’altro che questo, ed ero assediato, trafitto da una sensazione di amore in grado di disintegrare la cruda rovina del mondo.
Cioè?
La sensazione di essere accerchiato dal cielo, e quel cielo mi toccava come fosse carne, e poteva essere la carne di Cristo e al tempo stesso aveva Cristo dentro di sé… mi sentivo amato con una intensità al limite del sopportabile. È durata una settimana. Tornato a casa, mi sono gettato nel soggiorno, ho aperto la finestra: il vento muoveva la vite e fissavo l’alba, cercando di recuperare quello stato di comunione – ma non è accaduto nulla.
Beh, è apparso Hospital Británico.
Il libro di un mutilato. L’uomo che ha scritto quel poema non esiste più. In quel momento – non sapevo che mi sarebbe stata concessa la folgore – sono volato con il cranio aperto: scrivevo. Mi è venuta in mente la soluzione dei frammenti, ho scritto della morte di mia madre… il resto è lo stato di un uomo caduto fuori dalla realtà perché aveva un uovo nella testa. Chi ha messo insieme quel libro? Lo ignoro. Arrivano persone, vengono a trovarmi, mi scrivono delle lettere, ma io c’entro ben poco con l’effetto che provoca quel libro. Non sono più l’autore di Crawl. Non sono l’autore di Hospital Británico, perché era nell’aria. Non ho fatto che carpirlo. Hospital Británico mi fa credere di aver ormai lasciato il mondo, non so perché. Il paradiso era nell’infermiera che passava di rado…