13 Ottobre 2018

Victor Segalen, il poeta che visitò Gauguin, scrisse il libro più anomalo a Pechino e morì in una foresta bretone con l’Amleto sotto il braccio: leggetelo!

Infine morì e la sua morte fu un mistero. L’incipit è nel gennaio del 1919. Nevrastenia acuta, decretarono. Il poeta, archeologo, antropologo viene accolto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Brest. In aprile è ad Algeri, a perfezionare la convalescenza – che in realtà acuisce la sua depressione. Si trasferisce, allora, a Huelgoat, in Bretagna, di cui ama le foreste. Durante una gita solitaria, il 21 maggio del 1919. Forse ha un incidente. Forse si uccide. Lo trovano dopo due giorni. Nella foresta e nel sangue. Di fianco al corpo, sbrindellato dall’erba, l’Amleto di Shakespeare. Muore così Victor Segalen, in una foresta di misteri, l’autore di una delle più enigmatiche – e misconosciute – opere poetiche del secolo che fu.

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Soffriva di depressione e si laureò, nel 1901, con una tesi su La nevrosi nella letteratura contemporanea. Era affascinato dagli estremi – da chi coltiva l’arte come culmine di un delirio interiore. Da chi imbraccia l’arte per essere trascinato verso gli ignoti, gli oscuri. Fu in sintonia, perciò, con Arthur Rimbaud. “Indiscutibile poeta tra i quindici e i diciannove anni, nel pieno della sua verve creativa ammutolì, vagabondò per il mondo, si dedicò agli affari e all’esplorazione, si negò, lontano, a quella fama di artista che lo reclamava e morì a trentasette anni, dopo immani inutili travagli… l’incoerenza prorompe… Non dobbiamo cercare di capire. Chi non capisce e si ostina a capire è, a priori, chi non sente”, scrive, in un testo del 1905, Il doppio Rimbaud (in Rapsodia selvaggia. Interpreti francesi di Rimbaud, a cura di Adriano Marchetti, Marietti 2008).

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Quando scrive di Rimbaud si era già imbarcato per andare a stanare Paul Gauguin. “Gauguin fu un mostro. Non possiamo cioè farlo rientrare in nessuna delle categorie morali, intellettuali o sociali, che bastano a definire la maggior parte delle individualità. Per la folla giudicare significa etichettare”, scrive Segalen in Gauguin nel suo ultimo scenario (in Italia per Bollati Boringhieri, 1990), uno dei tanti, precoci, fondamentali testi esegetici del poeta intorno all’artista. Sorprende la necessità dell’illimite: non bisogna capire, non bisogna etichettare. L’artista, che ha il carisma del diverso, del ‘mostro’, va accolto, l’innocenza va custodita, in modo scostumato.

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Nacque nel gennaio del 1878 fa e transitò l’esotico da paradigma turistico per dandy a dimora esistenziale: l’uomo esiste perché non esita a muoversi verso Est, dove è estivo il caso e una fola di labirintici ideogrammi il fato.

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stelesSegalen s’imbarca per Tahiti e vi giunge, con difficoltà, nell’agosto del 1903. “Ho peregrinato devotamente verso l’atelier di Gauguin… Gauguin è morto l’8 maggio. Morfinomane, distrutto dall’alcol, col cuore stremato… Era amato dagli indigeni che difendeva contro i gendarmi, i missionari e tutto il solito materiale da ‘civilizzazione’ omicida”, scrive sul suo taccuino il poeta. Un incontro mancato di tre mesi. Segalen riesce a salvare qualche quadro di Gauguin dal massacro degli indifferenti – e dei sospettosi missionari, che lo tacciavano di paganesimo. “L’agonia di Paul Gauguin nel suo triplice periodo maori – primo soggiorno a Tahiti, secondo soggiorno, primo e ultimo soggiorno alle Marchesi – ha una sua compiutezza in quanto esalta una vita umana: l’equilibrio incessantemente compromesso e incessantemente ristabilito tra le forze distruttrici e le forze creatrici, tra la ferocia del pane quotidiano e l’imponderabile nutrimento, tra la preveggenza e la gioia, il mestiere, la fatica e l’opera”, scrive nell’Omaggio a Gauguin. Fu il primo, Segalen, a creare il mito di Gauguin – dell’artista che è tale se ha la furia di dissipare la propria arte. Ne celebrò l’opera quando nessuno la capiva.

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Le amicizie, certo. La folgorazione giovanile per Huysmans, che incontra, a vent’anni, deciso alla vita e all’arte come vitalità. Claude Debussy, per cui scrive un Siddharta – mai musicato, invero – e Paul Claudel, di cui lo affascinano i viaggi in estremo Oriente. In Cina arriva per la prima volta nel 1908, si ostina verso la Manciuria, dove turbina la peste, progetta una missione archeologica in Tibet. La Prima guerra lo sorprende in Birmania, Segalen molla tutto e torna in Francia, lotta con i fucilieri di marina, sul fronte belga, ma è roso da una gastrite ustionante, e va in convalescenza. Nel 1917 la sua missione è reclutare manovalanza cinese per le necessità del fronte, perciò torna in Oriente. Lì incontra Saint-John Perse, futuro Nobel per la letteratura, che riconoscerà spesso i debiti contratti con l’opera poetica di Segalen, lavora, raccoglie antichità cinesi, abbozza un poema sulla storia del Tibet. Torna a Brest nel 1918, “il giorno dell’armistizio, il crollo. Segalen è preda di un male misterioso” (Lucia Sollazzo).

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D’altronde, l’opera più alta l’aveva già scritta. S’intitola Stèles, è pubblicata a Pechino, nel 1912, in 81 esemplari fuori commercio – poi sarà riedita nel 1914 e infine nel 1922, a Parigi. “Sono dei monumenti concentrati in una lastra di pietra verticale che reca un’iscrizione. Incrostano nel cielo della Cina la loro fronte piatta. Le si scopre all’improvviso: al ciglio delle strade, nei cortili dei templi, dinanzi alle tombe. Segnalando un fatto, una volontà, una presenza, costrindono alla sosta in piedi, faccia a faccia con loro. Nella vacillante rovina dell’Impero, esse sole esprimono la stabilità”: così Segalen giustifica il suo lavoro. Le poesie sono iscrizioni su pietra, epigrafi, graffi sopra sassi miliari. Il binomio tra ciò che è indistruttibile e indisturbato – la pietra – e ciò che vola, corroso dal tempo – le lettere, l’alfabeto, l’idioma – è magico. Segalen scatta di lato dal proprio tempo – rivolgendosi a una antichità presunta, inventata – dal proprio spazio – è un ‘antimoderno’, ha già riconosciuto il virus occidentale, e cerca la cura, con enfasi ingenua, tra Polinesia, transiberiana, Cina – dalla fama. Scritte “in omaggio a Paul Claudel”, queste steli sono uno stuolo di immagini magnetiche, preveggenti – bisognerebbe tracciare una storia degli scrittori influenzati dalla sapienza cinese: da Tolstoj a Saint-John Perse, che scrive Anabasi in un tempio taoista alla periferia di Pechino, agli esercizi ideogrammatici di Ezra Pound alle traduzioni di Richard Wilhelm dell’I-Ching di cui si imbeve Carl Gustav Jung – una delle grandi opere anomale della letteratura europea.

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Scrive Lucia Sollazzo: “Il lieve alone di mistero intorno alla vita, l’opera e persino la morte di questo solitario mistico laico… e insieme il suo altero pudore nella pubblicazione dei propri scritti, hanno aiutato la disattenzione per la sua opera, l’hanno però custodita nel tempo. Inedita fino a pochi anni or sono, tanto più la sentiamo oggi attuale, più vicina a noi di quanto non lo sia il messaggio di alcuni fra i grandi contemporanei di Segalen”.

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La gloriosa collana ‘I poeti della Fenice’, edita da Guanda, affida Stèles, cioè Stele, alla traduzione di Lucia Sollazzo. Il libro è pubblico trent’anni fa, nel 1987. In Italia, la fama attuale di Segalen è circoscritta ai saggi su Gauguin e agli scritti di viaggio (Da Pechino al Tibet. Viaggio nei paesi del reale, Elliot 2014), e al romanzo, interessante ma modesto, René Leys: l’incanto della città proibita (O barra O, 2017; che fu in catalogo Einaudi). Il nitore di Segalen, che tenta di trapiantare nell’Occidente maciullato dall’ardore di dimenticarsi scaglie di una sapienza proibita, proba, è affascinante. Le sue ‘pietre scritte’ paiono totem marziani.

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L’utopia è quella di fondare una scrittura più duratura della pietra – sulle nuvole – pubblicando in espatrio da tutto, per sé soli – come una sfida all’orda del caos, da destinati, senza destinazione. (d.b.)

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Giudici sotterranei

Esistono giudici sotterranei. L’assemblea è riunita in piena notte: bisogna attraversare rocce tagliate dai satelliti e cadere nel vuoto più profondo di un pozzo.

Là, ogni vita si replica e ha voce. Che l’Imperatore guerriero sfortunato o cattivo principe non vi si avventuri:

il popolo dei morti per i suoi errori militari subito lo strangolerebbe.

Anch’io, reggente maldestro, timido vivente, non vi getto senza rischio il mio ricordo:

i miei desideri uccisi per una causa troppo giusta – soldati vendicativi e fantasmi – subito mi assalirebbero.

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Elogio e potere dell’assenza

Io non pretendo affatto d’essere là, né di sopraggiungere all’improvviso, né di apparire in abiti e carne, né di governare col peso visibile della mia persona.

Né di rispondere ai censori, con la mia voce; ai ribelli, con un occhio implacabile; ai ministri incapaci, con un gesto che sospenderebbe le loro teste alle mie unghie.

Io regno grazie al meraviglioso potere dell’assenza. I miei duecentosettanta palazzi uniti fra loro dalla trama di opache gallerie, si colmano soltanto delle mie tracce alterne.

E musici suonano in onore della mia ombra; ufficiali salutano il mio seggio vuoto; le mie donne apprezzano meglio l’onore delle notti in cui non mi degno.

Simile ai Geni che non si possono ricusare perché invisibili – nessuna arma, nessun veleno saprà mai dove raggiungermi.

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Nome nascosto

Il vero Nome non è quello che indora i portici, illustra gli atti: né quello che il popolo mastica di dispetto;

Il vero Nome non è letto nemmeno nel Palazzo, nei giardini o nelle grotte, ma resta nascosto dalle acque sotto la volta dell’acquedotto a cui m’abbevero.

Soltanto nella grandissima siccità, quando l’inverno capita senza fluire, quando le sorgenti, basse all’estremo, hanno nel ghiaccio conchiglia,

quando il vuoto è nel cuore del sotterraneo e nel sotterraneo del cuore – neanche il sangue vi scorre più – sotto la volta allora inaccessibile si può cogliere il Nome.

Ma fondano le acque dure, trabocchi la vita, venga il torrente devastatore invece della Conoscenza!

Victor Segalen

Gruppo MAGOG