25 Novembre 2023

Riscopriamo Victor Egger, l’inventore del flusso di coscienza

Pochi ricordano o sanno il debito di fortuna contratto da James Joyce con Ezra Pound: fu questi infatti a perorare la causa dell’Ulisse, a rischio di restare in un cassetto per chissà quanti anni, presso l’intelligente e coraggiosa Sylvia Beach, subito intuendone per il primo la portata rivoluzionaria. (Più o meno da dietro le quinte Pound intervenne diverse volte nella storia artistica del Novecento).

Meno ancora, però, sanno che il flusso di coscienza, magistralmente reso da un romanzo pubblicato nel 1922, trae dalla scoperta da parte dello scrittore irlandese di un’opera uscita nel 1887: Le lauries sont coupée (I lauri senza fronde) del francese Édouard  Dujardin. Joyce, non certo una persona magnanima, mantenne uno stretto silenzio, sino a quando non fu costretto a riconoscere quest’altro debito, ma a denti stretti e in una lettera privata, al suo traduttore francese, Valéry Lerbaud, il quale, si immagina senza il consenso di Joyce, rivelò la faccenda nel 1924 nella prefazione all’edizione francese dell’Ulisse.

Opera certamente inferiore per volume contenuti e tecnica al capolavoro joyceano ma meritevole di esser letta, anche solo per l’innovazione, Le lauries in Italia uscì pressoché ignorata nonostante fosse pubblicata da Einaudi, solo nel 1975; e non diversa fortuna ebbe, anzi, nel 2009 quando fu ripreso da Asterios in nuova traduzione e con annesso testo originale a fronte. Ed è dalla curatrice di questa edizione, Alessandra Solito, che il lettore verrà a conoscenza di un nome significativo curioso – e alla sua volta oltremodo negletto – non solo per inquadrar meglio Dujardin, che lo lesse (e quindi anche Joyce, che non lo lesse), ma soprattutto per  la storia della filosofia europea oltremodo negletto: il francese Victor Egger.

Il lettore italiano però non si incupisca, ché anche in Francia, il Paese che ha inventato lo sciovinismo e il nazionalismo, costui è, perdonate la banalità, un perfetto Carneade. Ad averlo tirato fuori dagli scaffali di dimenticate biblioteche e averlo ben ripulito dalle coltri di polvere è Riccardo Roni (da cui Alessandra Solito prende), dottore di ricerca in Filosofia a Firenze, collaboratore della Fondazione «Mario Tobino», etcoetera, coltissimo e scrupolosissimo, con ben tre volumi usciti negli ultimi anni: Victor Egger e Henri Bergson. Alle origini del flusso di coscienza e Filosfia, psicologia e letteratura in Francia (1896-1897), entrambi Ets e il più vasto e dedicato Victor Egger (1848-1909). La filosofia spiritualista in Francia tra Ottocento e Novecento, stampato da Mimesis.

La sparizione di Egger dalla filosofia europea stupisce ancor di più se pensiamo che al tempo della sua attività egli era tanto noto quanto ammirato e da studenti e studiosi, e da figure in seguito divenute celebri o celeberrime, ad esempio Bergson, Marcel Proust che lo ebbe insegnante d’università, e William James, l’autore del classico Le varie forme dell’esperienza religiosa, peraltro di recente ripubblicato da Morcelliana in traduzione migliorata rispetto alla precedente e stantia.

E codesta stranezza aumenta di grado sapendo che Egger si colloca di diritto nel solco della filosofia così detta spiritualista, un filone che, insieme e dopo la deflagrazione positivista e scientifica e se pur variata a petto delle epoche precedenti la prima metà del XIX secolo, tornerà di moda nella seconda per non dileguarsi più insino ai nostri giorni. Con più precisione, come scrive Roni nella sua monografia, «Egger affronta… temi ampiamente dibattuti all’epoca, in particolare dal fronte della filosofia spiritualista ed eclettica (Ravaisson, Renouvier, Lachelier…), all’incrocio tra un certo positivismo scientifico e analisi della coscienza che culmina nell’idealismo, giocando… un ruolo decisivo non soltanto nell’edificazione della Repubblica, ma anche nella genesi della laicità».

Ma l’asse portante della filosofia di Egger, spiega ancora Roni, è «aver tratto implicazioni psicologiche “descrittive” dall’idealismo soggettivo di Fichte attraverso la mediazione di Renouvier – il quale, a sua volta, fu allievo di Jules Lequier [altra figura, bensì circolante in Italia, ma che sarebbe da riscoprire, ndr] che conosceva bene i nodi centrali della speculazione fichtiana… – in modo da ridurre il peso della speculazione teorica che oltrepassa i fenomeni e dare all’idealismo critico una curvatura “psicologica”».

Ora, sono forse da individuare proprio qui i motivi dello scacco matto subito da Egger da parte della filosofia o per meglio dire delle filosofie.

Gli addetti ai lavori filosofici, dai più infimi agli alati, tendono e talora con veemenza a scantonare dalla psicologia, ritenendola una disciplina inferiore, un tentativo di “scientificizzare” la filosofia che, secondo loro, non deve né può esserlo. Questa posizione non solo deve essere dimostrata e non solo proprio Egger dimostra di non poterlo essere, ma palesa il desiderio di attaccamento allo storico privilegio della filosofia, o meglio: di certa filosofia a dettar legge, al dominio del discorso, in accordo ovviamente con le classi dominanti: un potere che la psicologia, cioè a dire psicologia propriamente detta, insieme a psichiatria e psicoanalisi, minano ai fondamenti. Grazie infatti al contributo della ricerca psicologica – naturalmente accanto a quella storica! – la filosofia metafisica, la chiacchiera filosofica, l’affabulazione incantatoria perde il suo fascino, la sua esclusività, la sua fondatezza. (In parentesi: uno dei motivi non detti e fors’anche rimossi per cui Marx ed Engels godono sovente di disprezzo e odio è proprio per aver tentato di fermare e dato il giro alle fole metafisiche. E discorso analogo potrebbe farsi, oltreché ovviamente per Nietzsche anche per Schopenhauer).

Da parte sua anche la psicoanalisi ha, oltre alle altre, qualche scheletro in tal senso. Roni, se pur di passata, ci avverte che «Freud… leggerà La parole intérieure», il testo fondamentale di Egger che reca l’eloquente sottotitolo: Essai de psychologie descriptive, ma, aggiungiamo noi con beneficio del dubbio, si atterrà com’è noto dalla consegna di tacere le sue fonti e le sue ispirazioni. Prova di questa attitudine della psicoanalisi a creare il vuoto d’attorno a sé, è che nel bellissimo e ancora utilissimo La scoperta dell’inconscio di Ellenberger il nome di Egger non compare neppur per sbaglio e ciò nonostante troviamo due seppur fuggevoli citazioni di Dujardin.

Qui dobbiamo per forza omettere i parecchi dettagli e sfumature, taluni notevolissimi, del pensiero di Egger e concentrarci su ciò che, a nostro giudizio, è uno dei più cruciali. Lasciamo anzitutto la parola a Roni:

«Egger… tutela sia lo spirito critico individuale sia l’apertura verso valori comuni e condivisi, che nel contesto della sua epoca sono riconducibili in larga misura al modello etico-politico liberale […]. L’attenzione che Egger riserva all’autonomia individuale, gli consente di generare specularmente l’alterità […]. Nell’esperienza della parola interiore, del monologo, l’identità del soggetto non è mai data come statica e monolitica, ma è già il frutto inseparabile della sua diversità, diventando una meta da accertare e che viene riformulata costantemente proprio grazie alla natura di questo misterioso dialogo con se stessi.

Il monologo interiore – che ha già la forma di un dialogo di apertura concepito come altro “me” – lo fa vedere nella sua intermittenza, giacché rispecchia un pensiero complesso che, sottraendosi alla pressione del tempo sociale atomizzato, si configura di necessità come ambivalente e fluttuante. Ora, prima di Bergson e Proust, Egger individua proprio nella contemplazione – la quale si oggettiva nel libero dialogo con se stessi – l’unica forma possibile in cui sia dato possedere il senso profondo dell’esistenza e la ricerca della verità, secondo una definizione che recupera in gran parte la nozione aristotelica di theoria quale manifestazione della vita contemplativa, un’attività interna che nel caso di Egger riposa in se stessa, non dipende dall’esterno ed è costitutivamente libera».

Adesso però a codesto quadro bisogna fornire un appoggio storico.

Da Fichte (1762-1814: sarà decisivo se ne faccia un ripasso, anche per questo contributo, nell’ottima Storia della filosofia a cura di Nicolao Merker), a Egger, ai Lauries, a Proust, alla psicoanalisi freudiana non ancora corretta dal genio di Wilhelm Reich, a molti altri, siamo nel pieno della rivoluzione borghese e arriviamo all’epoca compiuta della borghesia, e saranno esse a imprimere l’impulso alla preminenza del soggetto sotto la forma sociale, che inevitabilmente si riflette e trasferisce anche nella creazione artistica e filosofica e che sarà la base più solida (solida si fa per dire) di quel ritorno allo spiritualismo oggi declinato nei mille e mille rivoli, dai più seri (si fa ancora per dire) ai più cialtroneschi, ciò che nell’àmbito sociale e con il potente aiuto della tecnologia informatica, ha comportato la degradazione del soggetto dall’individualismo, al solipsismo, all’attuale autismo apsichiatrico, ravvisabile nei contegni di vastissima parte della popolazione.

D’altro canto è solo nell’epoca compiuta della borghesia che sarebbe potuta nascere un’opera bensì mirabile e feconda ma per certi versi deleteria quale L’unico di Max Stirner, non a caso passato a intensi raggi x da Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca. (Di passata: gli stessi motivi, ma rovesciati, inducono Roberto Calasso a trattare con atteggiamento sarcastico e sprezzante Marx nell’«Accompagnamento alla lettura di Stirner», che segue la traduzione, assai imperfetta, dell’Unico adelphiano). Naturalmente «l’unico», il solitario non era e non è invenzione metafisica piovuta dallo stramaledettissimo iperuranio, come credono le teste di rapa, ché, scorribandando liberamente il corso storico già ad esempio nel Don Chisciotte possiamo trovarne l’impietosa e irresistibile critica. Ma è solo col trionfo della borghesia che l’individuo può sciogliersi dai vincoli dell’innanzi e scatenarsi.

Nel dominio artistico e filosofico ciò ha imposto tanto una presa d’atto giustificativa, quanto una ri-creazione dei modelli collettivi o semi-collettivi pregressi. Si pensi a un fatto curioso assai. Di là della pochissima contezza in che si tengono nelle scuole gli autori stranieri classici, è certo che tra i famosi ma meno battuti torreggi Émile Zola, fatte salve qualche pagina del Germinal. Ebbene, non è affatto un caso, ché Zola – per inciso una delle massime penne della storia occidentale: e non è per nulla ovvio – scrive per lo più romanzi corali, in che gli eroi non esistono e la sua poetica è affatto distante dalla modaiola. Che egli all’epoca sua fosse noto e letto, era dovuto soprattutto a scelti e avveduti lettori e alla sua rinomanza in seguito al caso Dreyfus (che assai probabilmente gli costò la vita) e al fatto che egli, proprio con J’accuse, fu forse il fondatore dell’intellettuale in senso moderno. Ma oggidì Zola non ha più presa che né racconta mondi sovrannaturali, mistici o eroici furori di superuomini e wonderwomen, ma ha la sola pretesa di descrivere la miserabilità della vita e in particolare della vita di quella stessa borghesia di cui egli faceva pienamente parte. E si noti che tutto ciò avviene nel torno di tempo di che riescono le tendenze più solipsistiche in ogni dominio.

Avanti di chiudere sarà penso gradito a molti apprendere un succoso particolare. A scavare per bene la genesi del flusso di coscienza non scaturisce da Dujardin, ma da Richard Wagner. A ricordarlo è lo stesso Riccardo Roni in una pagina della monografia su Egger. Ma già l’anno scorso alla faccenda dedicò diverse e informatissime pagine Alex Ross nel suo stupendo Wagnerismi, opera mastodontica perché incaricata di esporre la storia mastodontica dell’influenza di Wagner in ogni dominio, artistico e non solo, e di cui trattai a lungo su questa rivista.

Riferisce Ross, definendolo «audace», circa Le lauries, che esso «rispondeva all’appello di Wyzewa per un nuovo tipo di narrativa wagneriana, volta a riportare le idee, percezioni ed emozioni di un unico personaggio in un breve arco di tempo». Con Teodor Wyzewa e Houston Stewart Chameberlain, Dujardin aveva fondato una «Revue wagnérienne», nel 1885, pochissimi anni dopo aver assistito a un Ring londinese (maggio 1882). «Furono quattro serate d’estasi – troviamo adesso in Roni –: ero preso come nel flusso di un oceano; e sono rimasto tale tutta la vita». Ci si leggano le pagine di Ross sulla vicenda: sono davvero istruttive e avvincenti. Ma nulla di tutto ciò si può e si potrà intendere fino al fondo se non compiendo il balzo all’indietro di che sopra dicevamo.

Richard Wagner, i compositori della sua generazione e i successivi ebbero la strada spianata da Beethoven, il primo musicista a sciogliersi dalle dipendenze conosciute sino a quel momento da tutti i predecessori e anche dal contemporaneo, maestro e amico Haydn, ergendosi a Titano anche sotto questo rispetto. Ma egli lo poté soltanto in virtù delle mutate condizioni entro di che l’Europa post Ottantanove si era quasi inopinatamente ritrovata: venendone meno presupposti e conseguenze, il volto conosciuto della storia anche artistica avrebbe tutt’altri connotati. E ciò tengasi per ogni altro dominio, compresa naturalmente la filosofia.

Purtroppo, ancora una volta, non posso abusare della pazienza dei lettori, e quindi né dilungarci su una delle vicende artistiche più straordinarie degli ultimi duecent’anni, né discutere della riuscita o meno dell’esperimento di Dujardin a tradurre in romanzo la poetica wagneriana. Sicché passo a un tentativo di conclusione, rilevando quanto – di là dell’originalità in che si possano declinare o si declinino – soventissimamente la filosofia e l’arte riflettano esplicitamente il modello sociale e contribuiscano a istituzionalizzare e a fissare per i posteri, allorché il modello sarà mutato, un paradigma teorico. Ciò tuttavia non toglie, salvo necessari casi, la profondità, l’intelligenza, l’originalità appunto di un pensiero o di un’opera, come nei casi nostri di Egger, di Dujardin o di Wagner, le quali però possono primariamente e non esclusivamente essere intese attraverso la loro genesi materiale.

Luca Bistolfi

Gruppo MAGOG