20 Dicembre 2018

“Verso l’eternità in tutto il suo niente”: sulla poesia indisciplinata di André Gaillard, amico di Cendrars e discepolo eretico di Breton

Muore il 16 dicembre del 1929 a Marsiglia – come Arthur Rimbaud, il ragazzino che si volle veggente – André Gaillard, poeta surrealista nato nel 1898 a Rochefort – nella Charente-Maritime, dipartimento atlantico francese – ma che presto si trasferì sulla costa mediterranea, dove visse, lavorò, scrisse.

Qui incontrò Blaise Cendrars, poeta e romanziere svizzero naturalizzato francese dopo la sua esperienza di legionario nella Grande Guerra, cui pure Gaillard prese parte venendo ferito in modo grave come il più famoso collega, il quale è tra le poche fonti di notizie biografiche sul suo più giovane amico.

André Gaillard
Lui è André Gaillard (1898-1929)

Amico perché come Cendrars scrive nelle pagine del secondo volume della sua tetralogia autobiografica, L’Homme foudroyé [L’uomo fulminato], la cui traduzione in italiano è incredibilmente parziale, e vale a dire le Rapdodie gitane edite da Adelphi nel 1979, aveva preso casa alla Redonne, splendida località a ovest di Marsiglia, con l’intento di scrivervi un nuovo romanzo…

Si lasciò tuttavia distrarre dal paesaggio e dalla gente, e pure dagli affari, che lo spinsero a ingaggiare Gaillard, già impiegato come telegrafista presso il Vieux-Port della città provenzale in cui si era trasferito a ventidue anni e dove conduceva una vita divisa tra il lavoro d’ufficio e una bohème notturna.

Gaillard divenne così, accompagnato dalle sue varie amanti, l’unico ospite ammesso presso l’Escaryol, il “castello” che Cendrars aveva affittato sulla costa di quel piccolo Peloponneso la cui meraviglia secoli prima di Cristo aveva sedotto con la sua scintillante bellezza i coloni fenici e greci, dove il giovane poeta poté disporre della camera da letto e di una macchina da scrivere.

Il profilo che Cendrars traccia del suo amico, è di un tipo timido, spesso silenzioso e malinconico ma anche affascinante, amichevole e chiacchierone. E dicendo del giovane poeta, l’autore di Moravagine coglie anche l’occasione per spiegare la propria presa di distanza, non solo geografica, da Parigi.

L’avanguardia culturale della capitale era infatti sempre più monopolizzata da Breton e compagni, preferendo ben più avventurosi viaggi in giro per il mondo, oltre che letterari, alla sterile frequentazione degli adepti del movimento, descritti come figli di papà, arrivisti impregnati di spirito borghese.

Gaillard a Parigi preferì invece Marsiglia, e nella città del Midi diede inizio a una proficua collaborazione con Léon-Gabriel Gros e i Cahiers du Sud, la rivista letteraria che pubblicò le sue prime due raccolte di versi, Il fondo del cuore e La terra non è di nessuno, riproposte poi, assieme a L’ombra e la preda, a I cammini della passione e ai frammenti di prose L’Amour à Marseille [L’amore a Marsiglia] e Les Plaisirs de la vie brève [I piaceri della vita breve], nel volume delle opere complete, edite postume nel 1941 con una presentazione accorata a firma dello stesso Gros.

Al contrario di Cendrars, il più giovane poeta rimase fedele ai surrealisti e non mancò di affermare la propria stima e il proprio debito nei confronti del capofila (“Mi ha aiutato a vivere – non a vivere come voi mangiate – a vivere” – “Ho dubitato, credo, di tutti i miei amici; non dubito di André Breton”).

Non per caso uno dei temi centrali della sua opera, come di quella di un altro membro del gruppo, René Crevel, è quella del tentativo di raggiungere una nuova forma d’esistenza, nella più perfetta immanenza, col suicidio come orizzonte finale, e un equilibrio che è “sempre sul punto d’esser raggiunto, sempre rotto dagli assalti contrari dello slanci o vitale e dello slancio mortale, ma la cui fissazione definitiva è un suicidio”, lungo quella che Gaillard descrive, specchiandosi nella poesia altrui e in questo caso nei versi di Paul Éluard, come una “ricerca […] incessante, assoluta”.

“Grandezza isolata che si conosce e si giudica, e non cerca altro appoggio se non in se stessa” – “Grandezza dell’uomo indipendente, fedele alla terra e a se stesso, negatore dell’immortalità” – “[G]randezza di chi va a perire e lo sa, grandezza di chi viene dalla polvere e vi tornerà, ma che, l’istante di un sogno, l’istante di una vita, disintegra con miracolosa imperizia la materia di cui essa è fatta e la anima più in alto che essa stessa”, tale è pertanto il sogno di quello che Gros definisce “un mistico senza Dio”, del tutto aderente a una filosofia materialista della realtà che Gilles Deleuze chiama “piano d’immanenza”, e che nel surrealismo diventerà vera e propria inversione del trascendente religioso, “eresia immanentista”, nella quale, come scrive Gaillard ne I cammini della passione: “L’uomo marcia a lungo” – “L’uomo calpesta il cielo”, e nel suo caso il vivere è drasticamente declinato tra sesso e droga, tra ricerca artistica e agonia corporea, cominciata a onor del vero, come ricorda lo stesso Gros, in parte corretto dalla testimonianza di Cendrars, con le ferite di guerra e proseguita con la caduta da una scogliera nei pressi della dimora di Cendrars, due episodi che portarono il poeta alla frequentazione degli stupefacenti nelle fumerie marsigliesi.

Il secondo tragico evento, dal quale in sostanza il poeta non si sarebbe più ripreso, è stato ricostruito dallo stesso Cendrars, che opta apertamente per l’ipotesi del suicidio, esito estremo del riennisme di cui Gaillard parla a proposito del romanzo di Crevel Il mio corpo ed io rafforzando l’idea di tale scelta.

L’incontro e la breve fratellanza poetica tra i due autori tra Marsiglia e la Redonne è di una spontaneità che fa il paio con quella dei versi di Gaillard, il cui universo poetico, privo di qualsivoglia sofisticazione intellettualistica, sta a fatica nelle gabbie che l’ideologia politica che il surrealismo di Breton  imporrà col dogma universalista della fraternisation auspicata da Éluard, nuova religione del mondo egualitario che, come denunciato da Henry Miller in una famosa lettera ai surrealisti, esige la rinuncia del poeta alla propria individualità e peculiarità per uscire dalla solitudine.

André GaillardRestio a qualsiasi precetto di matrice ideologica che cancellasse le differenze dagli altri che costituivano la sua individualità di uomo e poeta, Gaillard fu sufficientemente attento e sensibile alla realtà del suo tempo da saperne cogliere le dinamiche, tanto da affermare a fine anni Venti che: “[G]ià ora, nell’U.R.S.S. si possono osservare gli stessi germi di decadenza, gli stessi segni precursori di un fallimento delle libertà promesse”, e che: “Già i privilegi vi si organizzano […], e si può prevedere il giorno prossimo in cui la vita libera dello spirito [sarà] divenuta impossibile […].”

Anche sul piano della composizione poetica Gaillard si rivela anarchicamente indipendente da qualsiasi norma e l’unico autentico residuo formale della sua poesia è infatti costituito, almeno agli inizi, dalle strofe e dalle rime, impiegate meno per dare una regola musicale che non a svolgere un ruolo di puro “spunto sonoro” nella produzione di associazioni tutte surreali.

Così Gros descrive la poesia e quindi l’“esplorazione” di sé che Gaillard ha messo in atto, che considera analoga a quelle di Nerval e Rimbaud, e persino a un certo cinema burlesque: “La maggior parte dei resoconti di sogni de La terra non è di nessuno sono contemporanei alle ultime poesie de Il fondo del cuore, però, mentre le poesie riflettono semplicemente l’attitudine di Gaillard di fronte ai problemi essenziali, tali resoconti superano quello stadio e colgono in questo senso meno la posizione morale che non l’avventura intellettuale. Quest’esame di coscienza perpetuo, questo inseguire le stelle, André Gaillard lo intraprende a tutta velocità. La sola vita che valga la pena d’esser vissuta, esattamente perché impossibile, egli si sforza appassionatamente, freddamente di viverla. È questo ciò che intendeva con l’esser pienamente un uomo di carne e di sangue, e non un fantasma quotidiano”.

La libertà secondo Gaillard sarebbe infatti quella dalla morte, non intesa tanto come “l’ultima linea delle cose” oraziana, la quale, sia detto per inciso, va per Gaillard “verso l’eternità in tutto il suo niente”, come scrive in un verso di Scorpione, bensì quella che sclerotizza la vita degli uomini, o meglio degli automi, degli zombie del mondo moderno, direbbe il romanziere de “La crocifissione in rosa” sulla scorta del suo maestro, D. H. Lawrence, che Gros non manca infatti, e del tutto a proposito, di citare introducendo le opere del suo compagno d’avventura ai Cahiers du Sud.

Gaillard vive e scrive versi in questa maniera ben sapendo che un tale slancio cela il rischio della lacerazione, dello sfinimento, che filtrano infatti in modo costante nel dinamismo delle immagini che il poeta medita sconfitto, errabondo e solitario “con l’eco dei suoi passi lungo i cammini dei suoi sensi”, come dice di Crevel ma in realtà sempre guardandosi allo specchio, alla ricerca di una verità che tuttavia non può trovare nel libertinismo, nei libertinaggi, negli altri, presenze sfuggenti e insoddisfacenti, perché la vera, autentica coscienza e sapienza si può dare solo con l’agapè.

I rischi della deriva, analoghi a quelli narrati da Crevel ne Il mio corpo ed io, sono evidenti, e in essi, come aveva annunciato Miller, l’intero movimento surrealista è poi sprofondato.

La “realtà” cui approda il surrealismo è infatti, come notato da tanti commentatori, tra i quali René Guénon, di tipo inferiore, perseguita per tramite di un bricolage di riferimenti confusi, sincretici ed esoterici, oltre che psicopatologici, in un folle miscuglio che, come ha scritto Pierre Drieu La Rochelle, “lo tiene a distanza dalla grande esperienza pagana e cristiana dei misteri”.

Il poeta si aggrappa allora ai fianchi delle donne come ai puteali di questo pozzo profondo dei sogni, per lasciarvisi infine cadere, con la speranza di trovarvi la realtà. Invano. Cavalca l’onda delle fantasmagorie, si fa portare dal vento, ma non viene a capo delle ataviche antinomie, amore e morte, luce e ombra, giorno e notte, uomo e donna. Produce infiniti nuovi simulacri di visioni, coinvolgendo il proprio corpo, quello delle donne che ha incontrato, forse anche pagato o forse solo sognato, e la natura. Gli elementi sono sempre presenti nei versi, per mostrarsi ai corpi e ai gesti erotici, per circondarli, per mescolarvisi, per frizionarvisi, per distruggerli o per accoglierli.

Dal suo fondo del cuore scaturisce in una fantasmagonia onirica, surreale, esaltata ma non priva di ferite nella carne, nella mente e nello spirito che è questo “sonno scucito dalle forbici del sogno” fatto di terra e mare, amore e guerra, luce e sangue, fuoco e ghiaccio, desiderio e piacere, libertà e schiavitù, in un susseguirsi d’immagini mobili, debordanti, sfuocate, lampeggianti.

Marco Settimini

***

Chiave dei sogni

Per seppellir dei tanghi fasulli
Delle trombe dei taxi il fragore
Questo cuore che batte sotto i coltelli
State attenti che non cada in errore
Citerea accende i suoi fanali

Rive del cuore dai sogni battute
Questo fuoco desiderio che ti consuma
Viene a morire in risa increspate
L’acqua marina di una spugna
E le memorie le più ostinate

Rive segrete tanto battute
Flutti d’equinozio e d’amore
In cui si avvolgon le corolle cocciute
Di una procellaria ortodossa il clamore
Rapisce le vostre anche mal vestite

Volate via vesti del sogno
La carne sorride alle labbra belle
E a una notte breve s’impegna
Una fiammata di rosse stelle
E dei fuochi sulla battigia

Il vento che striscia fino all’alba
Vacilla e soffia i fuochi d’artificio
Il desiderio si fa rosso alla risata sorda
S’inginocchia su un gradino liscio
Per l’amore e la sua amara onda

Una pioggia scipita e velenosa
Con i suoi lenti aghi bucherella
L’anca avvinghiata e dolorosa
Con le sue lente maglie culla
La stretta spenta e zuccherosa

Lunghe ghirlande troppo facili
I corpi s’intrecciano avidi
Bocche che mordono i frutti fragili
Fiori e uccelli ardenti e gelidi
Danzanti sulle labbra agili

Dalle violette alle porpore dure
Tutto l’arcobaleno s’accende e muore
Un’alba di tragiche toelettature
Getta ghiacci sul suo cuore
Gigli freddi e delizie troppo mature

Come l’aurora è violenta
Sulla notte stropicciata di piaceri
Ancora un’alba che annienta
E la morte magra dei desideri
Che con uno specchio ancor si tenta

André Gaillard

*Per gentile concessione si è pubblicata parte dell’introduzione e una poesia tratta dall’antologia poetica di André Gaillard, “Le forbici del sogno”(La Finestra Editrice, 2018), volume curato da Marco Settimini

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**In copertina: Blaise Cendrars in una fotografia di August Monbaron del 1907

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