03 Marzo 2021

Per dare un significato autentico alla legge. Manuela Diliberto dialoga con Francesco Verrastro

Roma, primavera 2018, ancora lontani dalla pandemia. Conosco Francesco da qualche anno, da quando lavorava in un prestigioso studio di avvocati a Roma. Quando seppi della decisione di abbandonare un posto ben remunerato per potersi dedicare con più libertà all’accompagnamento giuridico dei migranti richiedenti asilo, mi dissi subito che se c’era qualcuno che avrebbe potuto fare una cosa tanto eccezionale, quello era proprio lui. Ci incontriamo in un ristorante a qualche metro dalla piazza di Santa Maria in Trastevere. La sua voce è dolce e profonda, quel tipo di voce che riesce a cullare le ansie. Parla senza puntare mai il dito. Spiega la portata delle sue scelte con la precisione dell’avvocato, ma senza attribuirsene il merito. Non so da dove prenda tutta quella bellezza interiore, ma uscendo dal ristorante, dopo l’intervista, mi pare di camminare leggera, l’anima incandescente e pazza d’euforia. L’ebbrezza di sapere che in giro ci siano persone come lui…

Francesco Verrastro; photo Cristina Dogliani

1. Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?

Francesco Verrastro – Mi chiamo Francesco. Il cognome non è importante, no?

M.D. – No, no, solo il nome.

F.V. – La storia familiare è che… ho un nonno, il nonno paterno, che portava questo nome, ma in realtà mia madre lo scelse in atto di devozione a Padre Pio e così le due circostanze resero assolutamente obbligata la scelta. Quindi mi chiamo Francesco per queste ragioni.

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2. Se non ti chiamassi in questo modo, che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?

Francesco Verrastro – …Un personaggio minore, direi. Un personaggio che io colloco storicamente in un periodo preciso e di cui mi sono innamorato lavorando e studiando (alla Sapienza, a Roma, Storia della Pubblica Amministrazione e in particolare Storia dell’Amministrazione dei Beni Culturali), un archeologo che fu poi direttore generale delle Antichità e Belle Arti: tale Felice Barnabei (archeologo e politico italiano, 1842-1922). Un personaggio sicuramente oscuro ai non addetti ai lavori, ma il classico self made man proveniente da una famiglia abruzzese di umili origini che è riuscito a scalare i vertici della pubblica amministrazione per diventare poi direttore generale. Nell’Ottocento si è fatto portatore di una visione politica molto netta tendente ad affermare le prerogative dello Stato nella prospettiva di un servizio alla collettività in materia di gestione, conservazione e tutela del patrimonio culturale, talvolta mettendosi anche in contrapposizione al mondo del collezionismo e del commercio di oggetti d’arte. Studiando e lavorando sulle sue carte è diventato come uno di famiglia. Quindi ho la presunzione di conoscerlo benissimo, ne conosco pregi e difetti (ride) e lo ammiro molto. Questo per rimanere ai personaggi storici… 

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3. Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte “scomode”. Tu, secondo te, perché sei seduto su questa sedia e stai per essere intervistato?

Francesco Verrastro – Fondamentalmente per una scelta, come dire… fatta da Manuela, l’intervistatrice, che è lusinghiera nei miei riguardi, viste anche le persone che ha già intervistato (Sorride modesto).

M.D. – Sì, ma perché Manuela ha scelto te?

F.V. – Immagino perché ad un certo punto del mio percorso di vita c’è stata una cesura, una discontinuità rispetto alla linea intrapresa: lavoravo in un grande studio legale e dopo circa sette anni mi sono accorto che le cose non erano corrispondenti al mio sentire profondo (mentre lo dice dà l’impressione quasi di scusarsene).

M.D. – Quindi nonostante i lauti guadagni non ti sei più trovato sulla stessa…

F.V. – Si, esatto. Pur non potendo parlare in senso assoluto, non potendo esprimere giudizi di valore, ho raggiunto la consapevolezza che in quel contesto io non ero più a mio agio, anche perché andando avanti nel tempo mi sarei trovato davanti ad un confronto dal quale sarei uscito certamente perdente.

M.D. – E l’hai abbandonato per fare cosa?

F.V. – Sono andato via per coltivare progetti di autonomia, fondamentalmente. Ho provato alcuni concorsi pubblici e poi in realtà ho abbracciato con molta decisione e convinzione gli studi sull’immigrazione nel tentativo di comprendere, un po’ più da vicino questo fenomeno, forse epocale, forse no.

M.D. – E che fai ora esattamente?

F.V. – Continuo con la professione di avvocato, ma lavorando in autonomia. Al mio settore di esperienza (il diritto pubblico) ho aggiunto alcuni casi di protezione internazionale e ho aderito e collaboro con un’associazione di professionisti e studiosi che si occupano di immigrazione.

M.D. – E per questo sei remunerato?

F.V. – Non prendo alcun compenso dai richiedenti asilo che decido di seguire. In alcuni casi, sussistendone i requisiti di legge, il compenso professionale dell’avvocato, come per tutte le persone non abbienti, non solo per i richiedenti asilo, può essere coperto dallo Stato, secondo una tariffa liquidata dal giudice, ma con una tempistica del tutto irregolare e incerta. Diciamo che, rispetto ad alcuni anni orsono, ho nettamente peggiorato la mia posizione economica…

M.D. – Ma tu ti senti più felice?

F.V. – Ma sì, molto più felice! Molto appagato da questa scelta. Si fa quello che… come dire, ti rende tranquillo, tranquillo in senso alto, non in senso materiale. Poi ho a fianco persone solide e non certo e non solo in senso materiale, ma soprattutto in senso morale e spirituale, persone che mi hanno assolutamente incoraggiato e assecondato a superare le mie titubanze legate a preoccupazioni anche materiali.

Manuela Diliberto con Francesco Verrastro; photo Cristina Dogliani

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4. Ne L’Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che “Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l’Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare”. Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell’Occasione?

Francesco Verrastro – Credo che l’occasione aiuti, ma sono fermamente persuaso che la si costruisca con una propria convinzione che si traduce in gesti quotidiani e quindi anche con una preparazione. Secondo me tutte le cose, i grandi desideri, i grandi obiettivi programmati o meno – quindi anche quelli inconsci – sono sorretti sempre da una convinzione profonda che poi ti spinge giorno per giorno ad orientare i tuoi gesti e le tue azioni e, di conseguenza, a lavorare, a prepararti, per quel momento.

M.D. – E i tuoi progetti si realizzano in questo modo?

F.V. – Eh… chissà (dice come se, in fondo, la meta non fosse per lui che un dettaglio e il percorso, invece, l’essenziale). Intanto vivi coerentemente con le tue idee… e può darsi poi che si realizzino. In fondo credo molto che la ricetta di un’esistenza serena, al di là del raggiungimento di obiettivi più o meno percepibili all’esterno, più o meno altisonanti, sia di riuscire a mettersi davanti allo specchio e dire: “Vabbé, insomma… anche oggi ho combinato qualcosa di buono!”.

M.D. – Quindi non hai così bisogno dell’Occasione?

F.V. – Certo, c’è poi un’ambizione sana, almeno spero “sana”, ma quella dipende molto da come ti percepisci, dalle tue sicurezze e insicurezze… quindi c’è prima un lavoro interiore che è già un bell’impegno, no? E poi provi a venire anche fuori. Ma lì dipende molto dal carattere, da come sei fatto.

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5. A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappato?

Francesco Verrastro – Mi soccorre sicuramente la fede religiosa, quindi la fiducia nel non aver operato anteponendo il mio tornaconto personale e, nei momenti di dubbio, il proposito di poter fare meglio.

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6. Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?

Francesco Verrastro – Anche lì, la differenza la fa quello che sei e quanto decidi di rispettare quello che sei. Probabilmente è una cosa più semplice di quanto non si creda. Non penso che tutti gli eroi siano eroi per il gusto di immolarsi. Immagino che lo si faccia semplicemente perché si sa che lo si deve fare. Quella è la via e non si hanno molte altre scelte. Poi, è chiaro, la fatica c’è…

M.D. – Ma tu la strada la vedi tortuosa mentre la percorri?

F.V. – Non è mai semplice abbracciare la propria strada, anche perché spesso costa in termini di rinunce, di impegno, di scoraggiamento. Però penso che in definitiva, se ti poni il problema, è perché qualcosa ti spinge in una direzione diversa da quella sulla quale ti trovi. Oppure, riesci a vivere una molteplicità di dimensioni nella tua vita che ti portano, non ad essere schizofrenico, ma ad essere appagato un pochino da varie cose che comunque ti caratterizzano come persona e compongono un po’ il mosaico del tuo essere, della tua esistenza. Nel mio caso c’era la necessità di interrompere un percorso sicuro rispetto al quale sentivo disagio. Invece questa via, che è più difficile, mi rende più sereno. Rimane più difficile ma è certamente un via di maggiore… di maggiore onestà con me stesso.

M.D. – E quindi tu stai meglio?

F.V. – E quindi, sì, alla fine è un passo che rifarei… anche con la consapevolezza della difficoltà.

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7. Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro?

Francesco Verrastro – Se la paura significa tirarsi indietro e lasciare che altri paghino questa viltà, tendenzialmente, no. Poi bisogna verificare…

M.D. – Se tutti gli avvocati come te decidessero di continuare a lavorare nei grandi studi perché hanno da pagare le spese, la retta dei figli, la casa, chi li difenderebbe i richiedenti asilo? Sarebbe giustificabile? I dottori come Gino Strada avrebbero potuto lavorare per i fatti propri, nel privato…

F.V. – Ma… c’è una dimensione etica secondo me che non dovrebbe mai essere soppressa. Nel mondo professionale che tu citavi prima è presente a volte una sorta di tossicità, di dipendenza – fra l’altro comune a molte professioni… workaholic come si dice – che è una cosa molto precisa, molto riconoscibile e che si insinua inevitabilmente, soprattutto se lavori intensamente e in certi contesti. Così capisci a quel punto che è ciò che sei dentro che fa la differenza, perché se ti abitui a quello stile…

M.D. – … chi arriva sui barconi non li difende più nessuno!

F.V. – Esatto… cioè, cosa ti spinge a lavorare in quel modo, in quella dimensione? Una certa volontà di sfidarsi, quindi di mettersi alla prova, cosa che se ci pensi bene alla fin fine è irrilevante senza una dimensione etica che orienti. …A meno che non si decida di misurarsi con la logica dell’arricchimento o del successo fine a se stesso. Siccome nel mio caso questi elementi non erano mai stati così predominanti, è stato abbastanza facile. Allora la risposta è sicuramente che, sì, bisognerebbe avere sempre in mente la dimensione etica delle proprie scelte!

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8. Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell’omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni ’30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia, e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?

Francesco Verrastro – No, non è condivisibile e non è legittimo perché il valore di affezione di un qualunque oggetto, la sua dimensione individuale, non può sostituire la dimensione storica, oggettiva di conoscenza, di coscienza critica, di presa di posizione. Quindi non mi sentirei di condividere un atteggiamento di questo tipo di fronte all’enormità che quell’oggetto rappresenta. Poi è un libro e per questo potrebbe stare in una libreria, ma considerarlo un ricordo legato ad una sfera familiare, mi mette un po’ di impressione… almeno a me, insomma…

(Comincio a leggere la domanda seguente e lui mi interrompe come preso da un pensiero a lievitazione lenta). Farei una critica! No, perché la domanda è interessante! Farei una critica, ma prima vorrei sapere se c’è forse un’ignoranza da parte di questa persona.

M.D. – No, assolutamente no. (Rido).

F.V. – Allora c’è una qualche forma di adesione indiretta, di affezione a quello… e la cosa mi mette paura anche davanti al vincolo di affetto.

M.D. – In effetti la persona in questione nutre una vera e propria passione per la cultura tedesca e per la storia della sua famiglia. Non l’ho mai sentito pronunciare delle critiche, in ogni caso, verso i genitori al cui ricordo mi pare sia legatissimo.

F.V. – Ecco, se anche io fossi legato al proprietario di quell’oggetto da un vincolo filiale, rivolgerei comunque una critica anche nei confronti di un cassetto. Lo nasconderei… insomma, sarebbe un momento doloroso per me e mi porterebbe a fare una critica anche ai genitori cui sono legato. Sì. Forse sì. Poi è difficile, perché bisogna trovarcisi. Mi pongo nell’ottica del figlio che recepisce dai genitori quest’oggetto: come hai detto tu, c’è sicuramente il legame affettivo con i genitori, ma probabilmente verrebbe fuori anche la dolorosa necessità di fare una critica se i genitori a quel libro hanno dato un qualsivoglia valore. Quindi… non lo terrei. No. Sarebbe una cosa dolorosa da non esibire e di cui parlare in senso critico.

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9. Se non fossi te ma un’altra persona e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po’, con che parole descriveresti Francesco? Che descrizione ne daresti?

Francesco Verrastro – Come uno che ascolta… che sa ascoltare chi ha voglia di parlare e… fondamentalmente un timido. Per certi versi anche un insicuro. Sì, mi definirei così. Ma credo che la prima caratteristica sia la più vicina e non tanto per una consapevolezza acquisita, ma perché mi è stato detto in varie occasioni. Con me le persone si esprimono, proprio… parlano.

M.D. – E tu ti esprimi con le persone?

F.V. – Pochissimo. Infatti questa intervista è una roba molto… molto singolare (ride).

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10. Se non fossi Francesco Verrastro, chi vorresti essere?

Francesco Verrastro – (Sorride). Bruce. Non c’è bisogno di specificare il cognome (Springsteen, il suo idolo).

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Domanda Personale. Cosa rappresentano per te un uomo o una donna che richiedono asilo?

Francesco Verrastro – Rappresenta innanzitutto la volontà di comprendere, di capire. Ad un certo punto ti rendi conto che il mainstream informativo non ti aiuta ad entrare nella dimensione più autentica delle cose. Quindi c’è una sete, innanzi tutto, di conoscenza. Poi c’è questa propensione che ti porti dentro verso gli altri e che qualche volta diventa problematica. Ad esempio, di fronte ad uno che ti chiede aiuto, tu ti fermi anche se vai di fretta. E quello sono io… quindi c’è già questa difficoltà. E poi rappresenta un’altra cosa più importante, questa legata alla mia esperienza professionale, e cioè il fatto che ti rendi conto che esiste un sistema di regole, che, ove fosse applicato in maniera scrupolosa, garantirebbe un livello di diritti e di tutele importante. E che in fondo difendere un richiedente asilo significa semplicemente chiedere il rispetto di queste regole. Invece ci si scontra con il tentativo a volte sfacciato, altre volte goffo, di svuotare di contenuti questi diritti, queste norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e d’altri testi fondamentali dei diritti umani, e di fornirne un’interpretazione riduttiva legata solo ai timori, alle paure, alla contingenza strettamente politica. Allora dal punto di vista professionale per me significa il tentativo di dare una pienezza e una concretezza a queste previsioni che esistono e che non possono essere interpretate a seconda della forza di chi ne chiede l’applicazione. Ed è anche una causa che sento molto: il mio settore di impegno è sempre stato legato al campo del Diritto Pubblico. Spesso mi sono trovato a ragionare sulle leggi dal lato delle istituzioni, che poi sono anche un pochino, in senso marxiano, dei rapporti di forza di una società. Ma proprio allora capisci che i rapporti di forza portano ad orientare decisioni in un senso o nell’altro e che quindi il così neutro diritto in realtà non esiste… Le norme sono anche il riflesso di un assetto determinato. In questo momento impegnarmi in quella direzione significa dare il massimo significato a queste norme e chiedere che questo significato sia riconosciuto nel modo più ampio possibile.

*In copertina: Francesco Verrastro, avvocato, in un ritratto fotografico di Cristina Dogliani. 

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