Ogni lacrima raccolta nel sacro otre. Corro al tempio, come se qualcuno mi attendesse, come se lì, esattamente sulla piana bianca e metafisica, tornasse la mia vita, io la chiamo la vita di prima, anni rinsaldati al segreto sublime, il pianto che hai taciuto.
Torno al Tempio, perché sia Johannes a consolarmi e ogni circostanza promettermi che torneranno tutti, a casa. Quale casa?
Siedo sulla panca nella controra, quella in cui l’universo pare inginocchiarsi nella latebra dove avanzano certi ricordi che persistono, sono rimorsi, non saprei, a tratti rimpianti. Bisogna che mi tiri su, che additi al mondo la ragione del mio pianto. Salgo sulla panca. Johannes con calma mi invita scendere, dai, vieni, dice. Guardo la trifora del palazzo littoriano. Neoclassicismo e radure di sterpi. Mi sembra un po’ troppo persino per una città del Sud.
Cosa? chiede Johannes, senza voce. Ma io capisco. Il patriarca è muto. La kippah sul capo. Una barba curata, lunga, bruna, appena ingrigita sulle gote. Vorrebbe un figlio, lo chiamerebbe Leon, vorrebbe adottarmi.
Dice di amarmi, piuttosto. Scendi, mi allunga la mano, lo leggo dal labiale. Ha detto: scendi.
No, rispondo. No, perché il mio sguardo finisce sul brillio della trifora, sembra un mosaico, sono pitture su vetro. L’ultima cena? Cos’è?
Vengo al Tempio a prendermi la mia vita.
Datemela. Le lacrime scendono sulle guance. Il rom nella controra è ubriaco, dorme sulla panca più in là. Viene da un lurido sobborgo di Sibiu.
Le mani incrociate dietro la testa, dorme e sorride. È ubriaco. Quando sono ubriachi suonano la medesima canzone con la fisarmonica laccata di rosso, i tasti dorati, le giunture cromate. La stessa identica tristezza, ma è registrata, è una ballata fasulla, un vecchio mangianastri riproduce il suono, attraversato dal fruscio balbettante, l’inceppamento della bobina. Sono balle affidate a congegni rudimentali, antichi direi, sentimentali. C’è qualcosa di patetico e straziante nella menzogna di un bevitore o in tutte le menzogne. Quando bevono finiscono a suonare la Talijanska. A me viene una strizza al cuore. Si può dire? Strizza al cuore.
Dobbiamo essere anime sante.
Siracide e la rosa che “germoglia presso un torrente”.
Scendo dalla panca. La controra. Il rione sparisce dentro un silenzio circospetto, circondato dal frinire delle cicale. Indicano il gran caldo, arriverà con un vento di terra.
L’ubriaco accusa l’altro di essere ubriaco. Il segno, nel codice slavo, il segno di uno che beve, sono quattro dita sul collo, ripetute, alla stregua di una lama che batte, infilza nel medesimo crogiolo.
Beve. Dice l’ubriaco al tizio indicando l’altro, il compare. L’ubriaco.
Avevo una gran confusione in testa, un ronzio tale di ciarle ascoltate, ronzii. Fregature.
Scendi, dice Johannes. Nel suo labiale c’è la pietà. Tutta la pietà per intero.
Vorrei assolverti. Lo dico magistralmente alla vita, ti prometto che ti assolverò. Ma adesso devo andare, il tempo è finito.
Sistemo il vestito lungo i fianchi ossuti. Il mio corpo è contratto. In stato di allerta. Devo tornare a casa. Non so dove. Johannes tende la mano, siediti, dice. No, invece no.
Devo camminare, così a lungo, fino alla fine, alla fine di qualcosa, di quel tormento, non so come chiamarlo. Il silenzio nella controra. È un requiem.
La marcia funebre, atona.
Un volo di storni accecati verso il tramonto. Potrei aspettare il tramonto.
Non la rosa che germoglia in prossimità del torrente, dice Siracide. Libro 39.
“Molti loderanno la sua intelligenza,
egli non sarà mai dimenticato;
non scomparirà il suo ricordo,
il suo nome vivrà di generazione in generazione”.
Non sembra un testamento?
È Siracide. Johannes leggeva Siracide in special modo.
Un giorno di gennaio, freddissimo, nel buio prematuro, nella notte perenne dell’abbandono, ritorna vedete? La ragione universale. Dovrei spiegarvi, bene, un prologo.
La vicenda cristica, l’abnegazione, la magnanimità, il trionfo, l’abbandono.
Il tradimento. L’abbandono.
Johannes un giorno di gennaio che era pomeriggio e poi era sera, ecco quella volta mi consegnò un libro. Era l’Imitazione di Cristo.
Quindi un po’ mi aveva salvato. Non è così?
Dovrei spiegarvi meglio.
Scendo lungo la rada del Porto. Davanti al mare consegno la solitudine e il disprezzo e i ricordi e le parole mute di Johannes.
In mente ho vergato un lascito.
Il sud è una provocazione. Di colpo ti coglie una fragranza, ti sorprende, scivola come uno sciame dentro la mestizia. Capisci che non sai perdonare.
Nel mio testamento vorrei aggiungere alcune cose. Un vestito azzurro, contemporaneo al fox trot.
Con questo vestito, indossato due volte, ho incontrato un uomo. Dovevo raggiungere la casa rurale nelle campagne, dalle pendici del paese, incastrato tra i monti degli Iblei. Le strade si inerpicavano, simili a mulattiere, a frammezzo di pendii improvvisi. La notte si inabissava nei profumi della primavera, nascosti tra i mandorli assopiti, gli ulivi dai tronchi cavi e misteriosi, uguali a marsupi gravidi di millenni. Non temevo la notte, i barbagianni volavano sopra la mia testa. Indossavo questo vestito. Le campagne erano silenziose come il resto, la placidità rotta dall’ipnotico gufo, il cuculo sulla vetta di un poggio, la vedetta, il barbagianni. La piaggia solitaria. Il mio vestito azzurro mi copriva appena.
Di questo sono fatta, di queste memorie primordiali, di questa terra disossata, le mulattiere, i covoni di fieno, e i visi torvi, su panzer cigolanti. Nelle mie confuse radici, il mio vestito azzurro. Il mio testamento.
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
*Il racconto è illustrato con opere di Isidor Kaufmann (1853-1921)