Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio
Letterature
Silvano Calzini
Il sole del tramonto poggiava sui tetti della vita del tempio, un’aureola distratta che intercedeva su cantori mogi, figuri ansanti o supplichevoli, e sembrava concludersi qualcosa, il giorno, il tempo fremente, l’attesa intonsa che batteva alla porta delle vicende degli altri, terribilmente borghesi nondimeno a giustificare la viltà dei negletti, seduti sulle panche, i poveri in attesa della mensa dei frati alle sei del pomeriggio. La solennità di chiarori violacei apparteneva a quel sole che non conteneva memoria, fino a voler intendere di chiudere il giorno nella pace elegante, con le nottole che sfuggivano di traverso, tra i vicoli, planando, a frammezzo di un campanile e l’altro, un sentiero umido di vecchiezza, con la Madonna nell’edicola naif, all’angolo di un angiporto, il muschio abbarbicare, da un balcone sormontato di trifore ricamate e da pitture arcaiche, con acrilici sabbiati o vernici ad acqua. E tutto era talmente antico al Tempio, persino proseguendo oltre, lungo le strade che ronzavano l’odierna volgarità, detta consuetudine, una qualche forma di progresso sul tergo dell’ignoranza edotta dalla buona volontà, dal brusco camminatore siculo, con una tesa larga sulla fronte, il berretto conficcato sul cranio e fessure al posto di sorrisi franchi, diffidenza nelle mani ruvide nascoste, l’una intrecciata all’altra. La celebrazione dell’inedia e della diffidenza al servizio di un futuro frettoloso, non veloce, da prendere in seno alla stregua di una chance, la chance del buttero che può pur sempre rimediare al fondamento di una identità, nata stanca e abbrutita in un vicolo, nel rione dei pescatori, eppure sobillato da neonate ambizioni di élite, conformandosi in fondo la medesima manfrina, del servo e del vassallaggio, del forte sui deboli, una schermaglia, il buio sulla luce, straducole che conducevano all’alba, dimoranti afflitti dentro un tanfo di stenti antichi, un fondaco nell’ombra, una vecchia protetta dal crepuscolo di un drappo, che sgrana le sue preghiere, emersa da epoche imperfette, dagli anni littoriani, da una geometria di modestia arrancata su un secolo, il medesimo che altrove avrebbe significato una rivoluzione, un maggio sulle barricate foriero di cambiamento, mentre nel vicolo dei pescatori restava indefesso, muto come uno Stonehenge, la cuspide di una ragione, imperscrutabile e siciliana. Gli uomini del tempio erano il sano contralto, la palizzata opposta al rito borghese del passeggio perbene spacciato per emancipazione.
Mi piaceva sedere al tempio se era maggio. Non mi intristiva come certe giornate ventose di fine settembre. Allora procedevo lungo il ponte, evitando la bruma della salsedine che si concentrava la sera, simile alla malinconia degli spostati, quelli che hanno il vizio di dolersi fino all’ultimo dei loro giorni e senza un vero discapito, un uomo clemente da accusare, una deprecazione suprema su cui sistemarsi per meglio impetrare.
Il tempio a maggio sembrava largheggiare possibilità, l’illusione pavoneggiava davanti alle grate del rudere millenario ove si raggrumavano capannelli di turisti di solito teutonici o immancabilmente giapponesi.
Johannes passava da lì con il rotolo di pergamena in tasca, attraversava il tempio da patriarca e distribuiva le sue poesie in dialetto, vergate con inchiostro di china. Accanto mi sedeva una delle anziane, o le tre insieme, per le quali ero la stranissima creatura che proveniva da qualsiasi luogo, talmente amorfa e nel paradosso indistinguibile da configurarsi assente pur nella presenza, priva di un’ombra, non so come dire, non una vocale aperta, non un tentativo di idioma nelle parole espresse, le mie, poche, vaghe, o semplicemente stupide.
La mia forma di resistenza al tedio borghese era il tempio. Oggi potrei anche ammettere riguardasse una specie involuta di ostinazione, verso cosa non saprei, o anche verso genericamente l’inconcludenza. Tutto stava a stabilire di chi. La mia?
E il sole abbagliante, nella chiusa del mezzogiorno? L’eterna miseria? La paura degli altri?
La superbia idiota che mi rivestiva di abiti acconciati non era più assolta di una qualsiasi abitata da un cosiddetto lacchè borghese, uno riuscito e collocato, fosse pure nell’angusta museruola di un pedigree luccicante. Una targhetta fuori la porta, un custode nella guardiola di un condominio blindato, orlato di aiuole fiorite. Status validi come chincaglieria esposta in un museo futurista.
Per ciò può darsi preferivo l’ostilità, che qualcheduno chiamava abiezione. Sconcezza. Pusillanimità.
Non era nemmeno lotta di classe. Era una posa, l’unica che conoscevo, dove non occorreva – luogo metafisico – prevedere una socialità, un curriculum di compiutezza. Forse non c’era estremo più conformato della mia ostilità. Forse la precisa rivoluzione, il colpo di reni stupefatto, sarebbe stato starci dentro, dentro la vita, il tedio borghese, il condominio con le aiuole fiorite, la targhetta fuori la porta.
Starci.
“Arrivederla, caro signore”. Eccomi pronunciare come un cinguettio l’assurdo congedo, segretamente perfido, al passante, al peones. Un inciso, tratto dal personaggio di uno scrittore polacco. Arrivederla, mio caro signore. Questa è una rivoluzione? Non era piuttosto ferocia, la pessima abitudine di consolare l’altro, seppellendolo come pemmican, carne essiccata, di cui nutrirsi, in brevi leziosi balbettanti mea culpa; convenevoli da usare nella circostanza e strategicamente ero addestrata per vocazione a capovolgere la circostanza, rendendola per un secondo, ma solo per un secondo, l’ebbrezza dell’io, misero, miserrimo, adepto del sole abbagliante, la graticola del tempo fermo, la clessidra occludente del siciliano. Tutto questo succedeva al tempio.
Fintanto non accadesse qualcosa. L’attesa era vuota ma non smetteva di digrignare dinanzi alla fissità che ci spettava, che tuttavia meritavamo.
Io e gli altri, seduti sulle panche, sotto l’ombra di un melograno.
@Veronica Tomassini/emmeerre letterature