La luce sulla rena, a mezzogiorno. È una ripida, monda perentoriamente le ombre, lo sciabordio lontano mi fa pensare a certe isole greche, con pendii bianchissimi e colli di radure o di vigneti. L’azzurro è il medesimo. Si infrange con il verde di secche improvvise dove ti par di vedere guizzare la vita immacolata, nelle sembianze di mute trasparenti come cristalli, dalle pinne rigide e dai colori lampanti, esemplari cartilaginei, vertebrati con mantelli porpora squamosi, lanciati tra i brevi flutti. Sono stesa al sole similmente a una croce senza braccia. Il Tempio è alle mie spalle ed io potrei essere un’altra donna, con affari meno dissipati da sgravare. Affari, circostanze, con attinenza di solito alle sfighe del reprobo, che immediatamente diventano le mie. Forse anche per noia. Soltanto per noia, nella perfetta distanza con l’altro.
Tutte questioni lanuginose, trappole, ragnatele, dove infilarsi, lasciando che la lancetta delle ore circumnavighi con beffarda inutilità l’identica orbita. Finito un giro, se ne compie un altro. E non succede mai niente. Però le acque si rincorrono debolmente, in direzione di un bagliore aristocratico, sul margine, alla fine del mio sguardo, che proteggo con una mano sopra gli occhi, e vedo così scattanti e lontane le vele raggiungere la prossimità con il vento, forse è il maestrale? E proseguire, oltre lo sguardo, il margine, inghiottite da un’utopia ostinata, una libertà facile e sconosciuta, smarrita al di là di un confino, la petroliera sul limite dietro la roccia e la cima di un maniero, su cui sosta contemplativo il fenicottero rosa; è il contralto su cui misuriamo la nostra sicilianità, legata a una cavezza, le finte utopie su cui sbriciolare timidi scatti di nervi o altrimenti detto ottimismo. Ma poi esiste il mare e la vela laggiù, l’azzurro imbrunito che si mescola nella tavolozza dell’universo, traduce un inedito blu, la carta da zucchero dei brevi nembi, da cui discendono nugoli assottigliati di biancori, si abbandonano alle acque. Il mare diventa una mescolanza di prospettiva, alla stregua di una posa, il profilo del cavalletto, l’angolazione di una tempera del grande viaggiatore a rimiralo.
Sono un’altra, se resto immobile sotto la luce del mezzogiorno. Una donna piacente ancora, con una vita notturna, aperitivi al tramonto, prove coraggiose di femminilità con indosso guêpière comprate apposta. La forza cieca della luce educa il nostro spirito, siamo affaticati e temprati ad ostacolarlo. Siamo forti nella luce rude, per sostenerla, nel suo incanto. Non la amiamo, forse, noi siciliani, accecante e vivida?
Io non sono siciliana. Al Tempio circolavano talune leggende, da morir dal ridere.
Ero un’agente segreto, secondo il cantante neomelodico dei quartieri popolari, con il suo furgoncino travasava mobili da un deposito a un altro. Ero convinta che fosse un pervertito, uno come gli altri, perlopiù avanzi di galera. Brutto a dirlo, lo so. Ma erano tipi da maxiprocesso, contrabbandieri, corrieri di qualche posta infame. Droga. Sigarette. Alcol.
Posteggiatori dalla pelle nera e secca propensi ai coltelli e a tirar su con le mani sulla faccia dell’inerme. Una forma di violenza schiacciante, la cui oppressione era un fatto, una concessione risaputa e quasi dogmatica. Le spiagge più in là sono colorate, turisti e esotismo insieme, qualcosa di simile alla vita facile, balenante. La musica da un altoparlante proviene dal chiosco delle bibite. È una canzone francese. Je veux l’amour, recita il ritornello. E sembra possibile, di nuovo, la leggerezza, dicevo, un caffè all’aperto, un faubourg, la Francia, Parigi. La Provenza. Un campo di lavanda. La Grecia. Siamo in Grecia. I muri bianchi delle case, l’azzurro dei tetti e del cielo, giovinette vestite di veli, agitarsi e correre o danzare tra i vicoli, con grappoli di fiori al collo e lunghi capelli illuminati, illuminati come può una grazia accaduta per dovere, la grazia della giovinezza. A non saperla perdere o tradire. Ma quella è una frase da quarta di copertina e io sono una scrittrice. Ma al Tempio non lo sanno.
Al Tempio dicono che sia un’agente segreto. Il cantante neomelodico ne ha il sospetto, poi mi confida i suoi tormenti. Oh l’amore. Si è innamorato di una messicana, via chat. Alla quale spedisce danaro, con Western Union. Cash di duecento euro, per una masturbazione via etere. O le ricarica la card del telefono, per la simulazione di una fellatio, on line. Tutto riesce, sembra vero, sembra che l’amore succeda, una volta tanto. Imitandolo. Il sesso è l’amore, dice. Cos’è l’amore?
Rischiamo di incartarci.
“Secondo te, mi ama?” chiede, corrucciato e stanco. Stanco della vita negletta che lo sa essere e molto bene, per quelli del Tempio. I poveri.
Non lo so, rispondo. Se uno ti ama, aggiungo, ti ama.
Non perché sei buono.
Non perché sei cattivo.
Allora l’uomo, con il volto stanco e affaticato dalla luce feroce – che abbiamo imparato a ostacolare fino alla fine del giorno, come un bardo in groppa a un ronzino e non a un destriero come gli confà – si arrende dimesso ai miei giochi di parole.
“Rispondi meglio” esorta d’un tratto. Siamo seduti sulla panca sotto la palma degli autisti. Non dovremmo stare lì, meglio seduti sulla panca sotto l’ombra del melograno. La panca degli autisti è degli autisti. Ecco.
Schiarisco la voce e spiego con pazienza molto stucchevole.
“L’amore è l’amore” dico.
Ma io non lo conosco, sorry. Lo penso, non lo dico.
Non lo conosce, nessuno.
Lo penso. Lo direi erta sul predellino di un comizio di una lista indipendente di cialtroni.
L’amore, signori, miei cari, non è un affare di questi giorni, capite?
Le vecchie sedute mi guarderebbero con un turbamento divertito e volterebbero la testa ora da una parte ora dall’altra, come le capre, un gregge, che incontrai da bambina, nel campo degli zii di Lugnano. Mai visto capre tanto interessate alla mia persona.
Era avvilito, quell’uomo. Davvero, la sostanza delle cose potremmo fermarla lì, all’irretito patire, l’inutile vago contristarsi per un cavillo debole, non esplicabile al momento, se non nell’eccepire un’evidenza: sfugge e infine cambia sembianza, infine perde, o muore.
Non resta qui, direi.
Aspettiamo altrove, dunque. L’amore.
Questo succedeva al Tempio.
Il Tempio era alle mie spalle. La luce di mezzogiorno vibrava sulla rena, il silenzio crepitava, interrotto dal gabbiano innocente, il suo canto di infante impalmato sull’orizzonte squarciato da vele tese e smaglianti. Sono dentro un’acquaforte. Sono la viaggiatrice del Grand Tour. Potrei essere chiunque.
È una consolazione.
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
*Le opere pubblicate in questo racconto sono di John Singer Sargent