
Socialisti vs. nazionalisti. “Pietro e Paolo”, storia di un romanzo italiano
Libri
Valerio Ragazzini
I giorni si corrompono. Sono il fogliame secco che frange nell’ultimo sentiero, diritto conduce al sentimento partigiano, il più fazioso e dettagliato di minuzie barbare, un calpestio insozzato di melma, il berciare di un anziano sul suo ancestrale carretto; minuzie lacere, adombrate di teneri andanti, non le berceuse fuggite vie oltre il rosone di un palazzo barocco, tragiche, asimmetriche; nell’illusione di esser migliori tutto sommato, puoi solo appuntare sul petto una mostrina giacché soldato fuoriuscito o foreign fighters nei giorni smangiati dal tedio, sono un vizio della stessa esistenza; le tenere foglie diventano vizze, simile alla nostalgia, alla destinazione esimia di un buon cuore eroso nella latebra settaria dei malvagi, quando vuol approssimare un qualche dolo questi diventa malafede o semplicemente volgarità. Una volgarità dello spirito che sorprendi nell’uomo della strada, il cosiddetto popolano delle novelle veriste, non sorprendi la verità dei fatti, ma l’angolazione acconciata, minima, perché sia accettabile la miseria e il timore, la fine dei giochi, finiscono presto, la fine dei giochi è il cappio a cui arrendersi, la meraviglia e il tremore del condannato in contumacia, in Place de Grevès.
Monsieur Guillotin le consegno la mia stima insieme con il mio capo e il suo ingombro di patetiche, febbricitanti esaltazioni, ne faccia un buon uso, ne faccia quel che vuole.
Al Tempio raduni covoni di risentimento, ne hai il modo, le ore rallentano sfinite la competizione pigra, smarrita la baldanza di certe metropoli in cui le medesime ore diventano antagoniste sgargianti, o una fissità audace spostata in un recesso remoto del tuo cervello, per cui ti conviene vincere sempre e qualcosa, dunque agire, non stare, non esistere per ottundere ammutoliti un fallimento, ce n’è di solito qualcuno da frequentare.
Al Tempio si sta. Fermi. Io faccio parte di una stregua di defettibili frequentatori di fallimenti. Mi piace perdere, mi tolgo da ogni responsabilità o – peggio – patimento altrui. Temo l’invidia, il mormorio del coro, la temo come la mannaia del berbero nell’orgoglio convesso di una sottorazza, ancor meglio del cappio, un pedaggio che ho pagato spesso e mio malgrado. Ma al Tempio non sanno chi io sia, a saperlo, non avrebbero l’animo di sillabarmi anche solo una parola di astio. Non conoscono l’educazione di un sentimento edotto come l’astio, piuttosto la malevolenza rozza, ma innocente, lanciata senza criterio verso non quantificabili o identificabili sfighe. Ne avrebbero di dovere su cui imprecare, maledire ogni istante e ogni istante trasformarsi nella carogna sotto il sole con un calpestio nero di pece e grancasse di afrori sordidi, d’intorno, menzogne, balzelli incivili nella terra luttuosa che piace tanto al turista macchiato della colpa di un tale esotismo fasullo, sissignore, giusto per millantare alcune prerogative, un rosolio, una mulattiera bianca accecante, cime di agavi, rondò di oleandri e bouganville trafitte dal fucsia che par aver azzannato a morsi il porpora raffaelliano di polveri sgranate e rinascimentali. Alla fine dei giorni, una mulattiera, la vetta del cratere fumare l’indolenza bruna, incandescente.
Io non sono siciliana.
Nemmeno al Tempio.
Per ciò le vecchie mi guardano in tralice, talvolta, una mano alla bocca, sorridono turbate dalla stranezza, la mia intendo. Il solito scarmigliato puledrino, un ronzino nella sostanza, che a furia di tenacia si presenterà al parterre in qualità di destriero.
Tenevo in borsa il libro dei racconti di Kafka. La sera li leggevo a mio figlio, prima di dormire.
Hai un figlio. Dannazione, sei una donna, una madre!
Lo avrebbero mai desunto le anziane del tempio? Le vedove, i denari e tutto il loro tesoro nel pozzo di solitudini retrodatate, aggiornate, sfinenti. Avrebbero loro concluso, argomentato, congratulazioni mia cara, non lo si sarebbe detto che tu in quanto congetturata impostazione di rogne, fastidi, quel che vuoi, saresti stata capace di procreare, dare un che al mondo. Un battito, un singulto. La morbida lallazione, il sorriso degli angeli, sai quando dormono, e sono ancora infanti, ridono, hai visto? Ridono agli angeli. Sorridono, direi.
E tu?
Sorridi?
Le vecchie mi guardano come guardano le vecchie, sedute al Tempio. Un po’ sono mamme, un po’sono le vecchie dell’aceto.
Vedove, mendicanti, megere.
Durante le feste patronali sono la versione moderata delle sinti, che vendono palloni di azoto, sempre incinte, puerpere, gravide di primitività. Oscena, losca, come i loro Ducati, di cui da bambina temevo la puzza. La puzza di legna marcia, bruciata e marcia. O un tanfo provenire come da una ronda di bestie, provate dalla cattività.
Un compagnetto di classe faceva quella puzza, mi rattristava quella puzza e nutrivo sospetto e compassione insieme.
Il venditore pallonaro sinto voleva sposarmi. Ho un viso triangolare, si tiene sugli zigomi e le guance un po’ smunte.
Voleva sposarmi o rapirmi, non ho chiesto in quale ordine. Aveva occhi sottili, lucidi e feroci. Escono tutti di galera testè. I coltelli facili.
Non pronunciare mai quella parola.
Caminanti. Nella traduzione idiomatica. A me vengono in mente alcune strofe dell’inno dei senza patria. Oh sì, li amo davvero. Non so perché. Amo questo strazio, accordato a una chiatta e a una fisarmonica: (…) Gelem Gelem,
Lungóne droménsa,
Maladilém, Shukare Romensa (…)
Sono andato lungo strade infinite e ho incontrato romnì fortunati.
Fortunati. Ecco qui, bisogna commuoversi, stringersi al petto la disperazione sepolta da un calice di kalinka. Il riso e il pianto, nell’identica corolla.
C’è già tutto il dolore del mondo. Potrebbe bastare per perdonarvi tutti. Il cavaliere solitario in groppa al suo destriero. Una vita intera non vale il sentiero attraversato nel solipsismo straziante.
Ma è il dolore del mondo.
E lo devo raccontare.
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
*Le opere che illustrano il racconto sono di John Singer Sargent