
Mick Jagger & il culto per Jorge Luis Borges
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“Il cuore umano in conflitto con se stesso”. Difendiamo Faulkner!
Politica culturale
Mi consolavo da sola. Indossavo vestiti pesanti come drappi. Uno lo avevo acquistato sulle bancarelle del mercato alle Porte di Clignancourt. Parigi era grigia anche in Primavera, un aprile freddo sulla Senna. Lo ricordavo in gran segreto.
Ma ero al Tempio. Il caldo abbrancava tumidamente il profilo delle cose, che brillavano nell’inganno; il bitume dell’asfalto, più in là, risalendo il corso, si arginava in false oasi, come piccoli ristagni, una cintola simile al ruscello che gorgogliava improvvisamente, era un trompe l’oeil, un raggio che picchiava da qualche parte, rinsaldava riverberi da un canto all’altro, franava sull’asfalto, era un caldo opprimente che discendeva sui ricordi, per sconfessarli. Ma i ricordi erano il mio segreto.
Parigi. Ero davvero una ragazza allora, e la Sicilia, disumana, non era che un decrepito carillon, inceppato; una novena popolare dimenticata, finalmente lontana svagata; non avrebbe ecceduto e sfinito i suoi dimoranti negletti; così minoritaria, nelle sue larghe campiture di grano imbiondito e poi bruciato e i muriccioli, le bestie arrancate in trazzere improvvide, strade carraie, muri bianchi, agavi sovrane e frutti marci sotti l’ibiscus, o turgidi, rossastri. La memoria era un muscolo, una fibra che si allargava, come il ventre di una donna intorpidito dal piacere, dentro riposava, nell’unione suprema, una vicenda perenne che contiene l’uomo, con poche virtù, e una infinità di concessioni rimestate e errori da salvaguardare. La memoria si nutriva dell’inezia del Tempio. E nella disarmonia, il silenzio dei compartecipi, le vecchie tacevano, per una mezz’ora buona. Johannes doveva scrivere sul notes casomai, dunque taceva. O cercava me, perché traducessi per lui. La memoria è una faccenda che riguarda il ravvedimento, la ricapitolazione strumentale o parziale del reo. Del correo. La memoria attiene al silenzio. Il Tempio non era mai veramente il silenzio. Piuttosto la grande pace si diffondeva dopo, tornando a casa, e attraversando la solita cala del porto. Mi alzavo sulle punte e guardavo giù le acque rossicce, fremevano oltre il ponte ottocentesco, serrato da balaustre arzigogolate, disinnescavano il barbaglio violaceo del crepuscolo. Eccola la pace. Finiva in un pianto. Segreto, quasi quanto i ricordi.
Allora il gabbiano che rasentava la mestizia e urlava con il lamento di un infante coglieva il segno delle cose imprimenti, quelle che hai inteso, ti inchiodano, non sapresti dire meglio.
Un pianto che si saldava alle grate di un cancello, dietro il quale fissavo imbambolata un sentiero di roseti e la casa patrizia.
Le lontananze turchine rimandavano a melanconie inattingibili. Fisse. Baluardi. Avamposti frazionati di altro indistinguibile impasto su cui far maturare intuizioni. O scritti. Romanzi. Non so.
Johannes vergava poesie in dialetto. Io non amavo il dialetto.
Che io scrivessi, al Tempio, badavo bene che non si sapesse. Volevo restare la creatura avulsa, l’insensato ologramma, vestita di verde, bardata di contraddizione e di un vestito pesante come un drappo.
Così che potessi restare nel segreto la ragazza che risaliva di corsa tra i padiglioni sfavillanti i piani de Le Galeries Lafayette. Comprava gonne di fiori, creme profumate, un distillato di Chopard.
Lei era davvero innocente. Nell’innocenza, dimora la bellezza.
Ecco, sì.
Le vecchie e Johannes sedevano sulle panche, nella controra. L’ombra dei melograni pioveva appena sulle nostre spalle. Non proteggeva dal tempo che circuiva ognuno nel medesimo ozio, rabbioso o colpevole. Il nostro tempo allungato, intrappolato nell’albume di fatti incidentali e destini che non sarebbero mai accaduti.
Il compagno di liceo che suonava il pianoforte attraversava la piana metafisica. Il pallore cinerino me lo mostrava disarmato, con un sorriso stupito come non suo a smarrire ogni premonizione. Voglio dire: sei già morto, amico. Ti fai l’ultimo quartino e stendi le gambe. E chiudi la pratica. Come vorremmo tutti, ad un tale minuto del giorno. Ci assalirà quel pensiero ad un tale minuto del giorno, voler chiudere, farsi l’ultima razione di qualcosa: di felicità. Qualcosa. L’ultimo bicchiere. Un grammo di eroina. Brown sugar. Il compagno di liceo era uno da salvare, diceva Johannes. Anche quando non parlava, lo capivo lo stesso. Voleva salvare tutti. Era una maledizione, un assillo. Uno slang, persino. Un manifesto di retorica, per cui intorno alla sua persona o anche alla creatura azzardata che dovevo rappresentare, un ologramma avulso, circolavano stranissime leggende. La sua voce era diventata una specie di frinire, o un tonfo rauco, che infilava l’aria nel buco al centro del collo. Il suono dipartiva, si rapprendeva in un rantolo, o in una tosse essudata.
Non salvi nessuno, amico.
Era la medesima questione, sovraccaricava di responsabilità l’attesa del Tempio. L’idea molto stupida che dentro quella Sicilia da rovi di ginestre, piazzati sulla cima di un vicolo, gettati sul mare furioso, che aizzava lo scirocco, fino a gonfiarsi e riempirsi di vele, vi fosse una cospirazione di ingenuità, tale da pretendere di interferire nella vita meschina; la vita che si ficcava nei viottoli, nella mestizia di un purgatorio, vociante, popolano.
Io credevo nelle idee molto stupide. Johannes era serio e mi spiegava che ognuno, ognuno, ha un perdono da meritarsi. Lui voleva perdonarli, i peggiori, i meschini, nel quartiere dei pescatori.
Johannes indicava con il dito, su verso la fine del vicolo, all’angolo con le ginestre. Tornava or ora un tale pittore di acqueforti. Non aveva i denti. Era vecchio e lo sembrava moltissimo, perché non aveva i denti. Si cuciva le ciabattine, era mingherlino, perché aveva imparato a cucire, in una fabbrica in Germania. Un gastarbeiter.
Niente di meglio che un siciliano, un meridionale, un terrone. Unti e fregati, ci hanno titolato persino i tabloid teutonici, in un campionato di calcio. Unti e fregati.
Gastarbeiter.
Dipingeva nature morte.
Vele infrante sulla spina dorsale di un maniero, sul soglio di un orizzonte.
Nell’insieme guardavo le sue composizioni, spesso spalmate su un fondo bruno. Ambizioni di infinito e modestia insieme.
Vi dicevo, ai siciliani piacciono le antinomie.
Scendeva a piccoli passi, nelle ciabattine appena cucite. Johannes lo indicava con il dito. E mi pareva di sentirlo mormorare, senza voce: Quella laggiù è la miseria.
*Le opere pubblicate in questa pagina sono di Nicolas De Staël
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature