05 Agosto 2022

“Sono l’orfano e la vedova, di entrambi indosso le vesti”. Storie dal Tempio

Il giorno si levava senza promesse. Se c’era la pioggia ed era estate, mi sembrava un presagio. La mia disperazione stropicciava gli occhi al Tempio, comparando mestamente e con vergogna quella degli altri, di gran lunga più arrogante. La mia disperazione diventava il mausoleo nel Tempio, un tempio dentro l’archibugio. Mirava alla sorte, sparava con cartucce di orazioni, sparava a salve.

La mia disperazione trovava la voce raspante dell’atono, Johannes, non temere, ed era un sacrificio, un sorriso, un suono pietoso, scandiva bene tuttavia: non temere.

Diceva, non temere, Dio ti ama. E non era una supplica e un giubilo che si incontravano per caso, gettati nel disordine, smisuratamente disuguali nella capienza in cui incassavano speranza e fede. Il soggetto sono loro: supplica e giubilo. Il soggetto è una somma plurale, è un assoluto intangibile. È Dio.

L’Eterno era una preghiera incessante, era il mio stesso giorno, le ore che si aprivano e chiudevano in un’attesa insensata e alla stessa maniera misteriosa, pervicace. La preghiera era la disperazione che afferrava il versetto del salmo, e mormorava digrignava, piangeva, ascoltava, pazientava. Erano le lunghe passeggiate, il periplo dell’isola in cui sorgeva il rione, il tramonto poggiato sulla cima del maniero, le estremità violacee che intempestive annunciavano la notte.

La combutta di aironi che decidevano d’un colpo di radere le fronde dei cipressi, mentre una lingua blu di Ionio si accorgeva dell’infinito e lo chiamava orizzonte.

La preghiera era il mio sguardo gettato oltre la cala, la lampara che dondolava, il lumino che inforcava le onde lunghe, il salabro che franava dentro le acque, con nodi solidi e anelli rammendati.

Capite, questa è una preghiera. È una vita per esteso. Tutta quanta, taceva un salmo, dapprincipio.

L’ostinazione sarebbe diventata il perpendicolo della prova. La grande prova. Al Tempio ogni contrizione livellava con il frastuono cattivo della povertà, i volti laceri, il rimestio di prede del destino, semplicemente volgo. Trovo la parola, volgo, così antica, nel rione malconcio.

Sedevo sotto l’ombra del melograno. Aspettavo certe giornate di pioggia che alzavano dal calpestio vortici umidi, polverosi. La bruma primitiva che non era mai gentile, come ogni cosa al Sud, ogni ferocia mai stemperata in un gesto di conciliazione dell’universo, ma poi invece succede, succede che i raggi del primo mattino infilzino le fronde dell’ibiscus, e la luce diventi un tremolio, il verde avventato che proviene dal mare, che si alza con la salsedine e le ragioni del nuovo giorno, sono il primaticcio di quel che sarà. Il nuovo giorno con ragioni linde, vergini, i suoni sono placidi come adagiati su un pagliericcio, i vecchi destini sono voci sguarnite che provengono da uno spacco sulla parete di creta o sprofondati nella voragine di una vallata e si issano con fatica, non si levano teneri, mansueti. Sono pesanti.

I vecchi destini, il vino nuovo nell’otre consunta. Un po’ lo capivo, e mi calmava. Bisognerebbe che vi riassumessi di nuovo la vita, qui, brevemente. Ogni destino ci appare inchiodato a una pena.

Un chiodo.

Un altro.

Un altro.

Ma siamo liberati. Al contrario, fuggirvi equivale all’onere della pressione sul nostro cuore, quando penetriamo non so le acque del mare. La pressione idrostatica è una specie di tank. Il dolore non dobbiamo che riscattarlo.

E mentre lo pensavo, quel dì al Tempio, Catilin, di Timișoara, eseguiva una ballata slava con la sua fisarmonica di acero, le rifiniture di ottone, i ricami dorati, l’ancia battente un suono flebile e lamentoso. L’apolide che singulta la terra sbiadita, non sapervi tornare. L’apolide che ha smarrito la via e postula lo strazio al camminatore, o un pellegrino, rivoluzionari atipici di una strana pace. La pace che si duole, mentre ingenera una tensione miracolosa e sale su, non a frammezzo, come nelle giornate di pioggia d’estate al Sud, ma irta, rapida, splendente, supera i sette cieli di cristallo; produce qualcosa oltre, un canto angelico irrora la volta del mondo.

Non sempre possiamo udire, quasi mai, veramente.

Quasi mai: è la misura del nostro rimpianto.

Così come pressappoco: lo era della felicità.

Johannes era smilzo, affranto. Mi domando se quel sorriso lo fosse sul serio. Perché poi è morto, il suo tergo affiorava dalle acque del porto.

Le acque sotto la cala che fissavo immalinconita, nei pomeriggi di ottobre. È morto lì. Johannes il patriarca. Ottobre mi rattrista perché ha una bellezza stremata, il cielo è talmente azzurro e esatto che lo sento raggiungermi con la nostalgia tagliente di tutte le cose finite. Ogni attraversamento finito bene, d’accordo, sì, ma non è servito a niente. Persino il nido della colomba sul davanzale al secondo piano, della cara finestra, oltre cui spargeva indizi la meraviglia di un altro tempo, persino il nido smetteva la sua innocenza.

Ed era un nido, un tramato di rametti, l’attimo sfinito, superato.

Torno ancora al Tempio, aspetto il mio amico, siedo sotto l’ombra del melograno, penso che arriverà, da lassù e punto il dito verso un angiporto, alla fine del vicolo, lo vedrò scendere dalla straducola, dove nell’angolo, dentro la nicchia votiva, riposa una Madonna naif. Così cammino ancora, intorno all’isolotto, osservando le quaglie librarsi insieme, gli storni ordinati e solenni alle cinque del pomeriggio, in autunno. E medito, e ancora una volta prego, senza sapere, una vita per intero dentro la preghiera. Nascosta, avvoltolata, come l’infante e la sua culla, il feto e la placenta.

E sono l’orfano e la vedova. Sono entrambi, di entrambi indosso le vesti. La corda che ferisce i fianchi.

C’è un brano di Scurpiddu di Capuana che recita: “(…) vedendolo quasi con le lagrime agli occhi, aveva dovuto rendergliele (…)”.

Erano monete. Ma io, io penso alle lacrime o lagrime, ancor meglio, dovevo restituirle, gemme o tourbillon brucianti prossimi ora al rimorso ora al perdono.

Nondimeno Johannes il patriarca le ha prese con sé. Perché nulla rimanesse a gravare. Se n’è andato, mentre io aspetto ancora, ogni pomeriggio, seduta sotto l’ombra del melograno.

@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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