19 Agosto 2022

“La mia disperazione è un combattimento”. Storie dal Tempio

C’è un frastuono che si approssima al silenzio, nel mentre di un sole filaccioso, al rintocco del mezzogiorno. Le campane interrompono la prossimità del frastuono che infila una quiete mortale, a tratti, sbranata da afrori di carogne; ovvero una certa luce che crepita e si sfrange sulle cose, fino a penetrarle o possederle. A mezzogiorno indosso la disperazione dei luoghi, la medesima luce d’estate, è una guerra, avete capito? Non solo il fronte della menzogna, della propinquità alla menzogna, c’è il bardo cavalleresco che invita a procedere lungo strettoie e cunicoli, trincee, avvallamenti, e i profili bruciano, le vie stordite da raggi opalini, le penombre pesanti trattenute a torto da cespi di oleandro: sono trincee o case matte, oltre le quali far brillare l’artiglieria, nemici vari ed eventuali. La mia disperazione è un combattimento. Sono le strade del Sud, prossime al frastuono, i giardini dove un immigrato sbronzo dà di stomaco. Le bacche marcescenti ai bordi delle strade promanano l’olezzo famigliare, lo partoriscono ad indicare la diligenza dei peccatori. E d’un colpo un faro biblico, un segno apocalittico e portentoso, acceca gli astanti, mi par di vedere qualcosa, o piuttosto vorrei vedervi qualcosa, l’apice straordinario nel minuto ordinario e ignobile; il balenio oltre le nubi turgide di sabbia e scirocco. Percorro i giardini dedicati a Margherita di Savoia.

L’odore dolciastro di bacche putride profonde alcune suggestioni, quel già visto che non puoi afferrare, un fatto accaduto che ti cammina al fianco, similmente a un andito sfondato, abusivo, dentro cui dimori, nella pazienza sonnolenta. Un varco ove affondare passi esitanti e pietosi talune volte. Spesso pietosi. Entro il varco incontro il Purgatorio di ogni esistenza. Trovo una strana circostanza a incoraggiarmi, più addentro il segreto della disperazione, più corroboro la mia forza. La potenza del martirio esotico, voglio dire un restare pigramente assisa dinanzi alla stoltezza, all’acredine di colori e gesti dinanzi ai miei occhi; uno sguardo capace di vedere molto lontano, con grandissimo terrore, e della profezia non sapere che farsene.

Ho in mente di parlarne all’amico. Johannes il patriarca. Johannes è morto. A volte, la sera, da sola, distesa sul letto, stringo gli occhi e mormoro qualcosa in sua direzione. In qualunque luogo adesso lui riposi, io lo benedico.

Perché mi ha salvato. Qualunque crimine abbia compiuto, dico tra me, che Dio lo abbia in gloria, perché mi ha salvato.

Allora stringo gli occhi.

Abito la disperazione. Una tunica che frequento liturgicamente, vorrei che si spiegasse, rivelandosi. Stretta ai fianchi ho una corda che ferisce, fino ad abituarmi a tradurre il disgusto o fastidio in una zona di conforto, acclarata nella severità con cui punirà ogni speranza. Però la speranza è una vicenda che compete alla fede e non diventa tradimento se non nell’enormità di un’eresia.

Illustratemi la differenza tra la speranza e la speranza tradita.

Cosa indica il tradimento? La lancia che perfora il costato da cui scaturì sangue e acqua? La sorgente sacratissima perché ne fossimo inondati?

Johannes direbbe: salvati.

Le strade del Sud in un giorno di agosto mi ricordano tutte le disperazioni in cui ho fissato i pioli della mia tenda. La sventurata, dice Isaia.

Perché io dovessi abitarla non mi è chiaro ancora. Eppur doveva esserlo, ogni dettaglio mi infonde la certezza che gli avvenimenti avrebbero dovuto conformarsi affinché stridessero, e in seno contenessero il combattimento, un martirio che continuo a definire esotico, estraneo a circostanze altrui. Martirio profondissimo, del tutto arbitrario.

Quando sedevo al Tempio era un po’ la tregua. Erano le vecchie del rione a parlare. Potevo smettere di dirmi addosso, parlarmi sulle mani, farneticare in fondo, teorie avulse o credibilissime. Vere.

Sissignore.

Vere.

Quante volte durante la Passione di Cristo torna il numero tre?

Gesù cade sotto il peso della Croce una prima volta nella terza stazione.

Il Figlio dell’Uomo cade tre volte. Si rialza tre volte. L’agonia del Figlio dell’Uomo strazia il cielo sul monte del Cranio per tre ore. Alle tre muore il Figlio dell’Uomo.

Risorge dopo tre giorni.

Tre, ancora Tre.

 E ancor prima, da fanciullo, resta a Gerusalemme nel tempio, per tre giorni.

Sul monte di Efeso, chiamato la collina degli usignoli, ha vissuto la Vergine, negli ultimi anni, prima di assurgere alla corona di stelle. Raccontano i testi ritrovati che ricordava il figlio, lo cercava, ogni sera, percorrendo a brani un sentiero, nel suo cuore stretto e amoroso, era la strada del Calvario, la via dolorosa. Ogni sera. Il viso fanciullo e sovrano, dalle estreme delicate fattezze, risplendeva come un riverbero tra le ombre santificate, prive del terrore delle tenebre, nella soavità del cinguettio, il suono delle creaturine, gli usignoli del poggio.

Gesù.

La collina degli usignoli. Con quale dolcezza il pendio sprofondava nel blu delle acque, ai piedi dell’abisso. Mai più mistico e indulgente fu l’abisso. Le rocce che pronunciavano tra i flutti avvitati una gioia sommersa. Sulla cima svetta il verde fogliame dei platani, una volta sinuosa di radure nei giardini di ulivo, un vento riparatore e buono, che assecondava il raccolto, le stagioni e i pascoli degli armenti. Il vento venerato. Il vento dello Spirito. Lo immagino così.

Ecco la fede, sapete.

La gioia sommersa.

Quindi il numero Tre.

Tre gli ingressi della casa della Vergine, sulla collina degli usignoli, a Efeso.

Tre gli archi della cappella cristiana che avrebbe edificato ancora vocazioni e speranza, nei secoli a venire.

Tre. Il numero Tre.  

Sedendo al Tempio era la gioia sommersa – il blu ai piedi del pendio – che procurava una nuova sete, la gioia simile al canto delle creaturine poggiate sui rami dei platani, sul colle degli usignoli.

@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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