“Toby Dammit” o dell’esteta nichilista. Incursione nel film di Fellini
Cinema
Massimo Triolo
«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intelligenti c’è stata sempre penuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa». (Leonardo Sciascia, Nero su nero, 1979)
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Premettiamo che non è nostra intenzione associare questo ragionamento ad alcuna delle persone che nomineremo qui. Non vogliamo certo emulare l’osservatore illustre di una transizione epocale di fine Novecento, e nemmeno è nella nostra indole assegnare etichette individuali, che spesso si rivelano fallaci. Noi ci limitiamo a guardare, ascoltare, annotare e porci domande su ciò che vediamo e sentiamo, nello spirito necessario della ricerca. Oggi le domande che sorgono le scegliamo a caso, cercando gradi di separazione nella dinamica promozional-mercatistica della letteratura italiana contemporanea più visibile, quella dotata di una speciale certificazione di conformità e di accreditamento presso i media e il pubblico. Dunque, cosa lega Jovanotti a Sandro Veronesi? E cosa lega Sandro Veronesi a Teresa Ciabatti? E cosa lega Teresa Ciabatti al book-jockey Antonio D’Orrico? E cosa lega Antonio D’Orrico a Sandro Veronesi?
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Il primo legame, quello tra Jovanotti e Sandro Veronesi, lo si trova nell’inserto culturale del Corriere della Sera il 25 settembre 2016, in apertura a pagina 2, sezione “Il dibattito delle idee”:
Sandro Veronesi — Allora, Lorenzo. Cinquant’anni. Com’è potuto succedere?
Jovanotti — Assurdo, eh? Anche pensando al nome d’arte che mi sono scelto. Non prevedeva un cinquantenne…
Sandro Veronesi — Eh no. Come la mettiamo?
Jovanotti — Eh, non lo so. È un problema. Anzi no, è una questione. «Problema» ha sempre un’accezione negativa; «questione», invece, anche positiva.
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I punti salienti dell’intervista, che celebrava il compleanno di Jovanotti nel “dibattito delle idee” de “la Lettura”, possono ricondursi ai concetti di vuoto («È successo che mi sono detto che questo vuoto è proprio quello di cui ho bisogno. Mettere il dito in questo vuoto, cercar di capire d’ora in poi quali sono gli spazi vuoti dentro di me»); di forza («Perché ero forte, perché ero diverso, e non avevo paura dei miei limiti, così come non ne ho nemmeno ora. È sempre stato così, perché fondamentalmente non ho paura di sbagliare, di mostrarmi debole. E insomma l’ho capito subito che ce l’avrei fatta»); e ovviamente di musica («Sono quello che sta sulla porta tra la musica e il pubblico, e la band per me è come un disco, capisci? È un materiale. Un materiale creativo, certo: quando Saturnino s’inventa una cosa io dico bella, facciamola, però non potrei stare in una band»).
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Poi, cosa lega Sandro Veronesi a Teresa Ciabatti? Semplice: la scrittrice appare negli “strilli” osannanti al romanzo del momento Il colibrì, che i paginoni del Corriere della Sera hanno destinato infallibilmente alla vittoria del Premio Strega 2020. Eccoli:
“Il Colibrì racconta tutto il dolore che può contenere un’esistenza. Lo racconta, e ce ne libera. Un capolavoro” (Teresa Ciabatti)
“Arriva un nuovo romanzo e riesce nel miracolo di contenere l’umanità, anzi di traboccare di umanità” (Annalena Benini, Il Foglio)
“Il Colibrì è il romanzo più ispirato scritto da uno dei nostri più ispirati scrittori” (Alessandro Piperno, Corriere della Sera)
“Uno dei romanzi più belli degli ultimi dieci anni” (Vincenzo Mollica)
“Di questo libro si dirà che è un capolavoro” (Marco Missiroli)
“Nessun narratore in Italia, oggi, sa raccontare come Sandro Veronesi le più minuscole e accidentate asperità della vita, tra ambizione e frustrazione, sogno e paura, memorie e inganni” (Sergio Pent, TuttoLibri, La Stampa)
“Una grandissima storia, un grande romanzo” (Concita De Gregorio, Radio Capital).
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Si noti la differenza d’impostazione di certi osanna: tra quelli univoci, che vogliono essere positivi al massimo, ci sono quelli biforcuti, che potrebbero significare sia una cosa sia il suo opposto, come la finezza di Alessandro Piperno (“il romanzo più ispirato” di uno dei “più ispirati scrittori”), dove l’ispirazione può essere intesa positivamente artistica o tristemente velleitaria – anche se sembra che Piperno abbia apprezzato, avendolo definito “grande romanzo elettrizzante”; e come il “pilatismo” perfetto di Marco Missiroli (“si dirà che è un capolavoro”), che sembra addirittura chiamarsi fuori dal coro di osanna, per non assumersene la responsabilità.
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E ora cosa lega Teresa Ciabatti a lui, il grande cantore della letteratura pop, il modernizzatore del parco autori italiano, l’inevitabile compagno di viaggio Antonio D’Orrico? Semplice: fra gli “strilli” di osanna al romanzo La più amata, nei paginoni del Corriere che tentavano di portarlo alla conquista del Premio Strega 2017, D’Orrico è quello che fa la sparata più grossa. Vediamo la lista di osanna:
“Una scrittura unica” (Stefano Bartezzaghi, L’Espresso)
“Parole esatte, taglienti come coltelli, brillanti come diamanti” (Concita De Gregorio, la Repubblica, Robinson)
“Il libro di cui tutti parlano” (Giuseppe Fantasia, Huffington Post)
“Una storia di forte valenza universale. Un piccolo miracolo” (Wlodek Goldkorn, L’Espresso)
“Una scrittura straordinaria, un libro come questo esce ogni dodici mesi. Lo consiglio a tutti” (Michela Murgia, Quante Storie, Rai3)
“Un libro pieno di dolore e di vita, che reca un messaggio universale” (Francesco Musolino, Il Fatto Quotidiano)
“Severo e commovente” (Valeria Parrella, Grazia)
“Un romanzo indimenticabile” (Tommaso Pincio, La Stampa, TTL).
E qui cosa può aver estratto il mago D’Orrico dal repertorio di lodi sperticate, dalla sua sfida alla cultura con lo storico slogan “Non ci crederete, ma quest’uomo è il più grande scrittore italiano” dedicato a Giorgio Faletti? A quindici anni da quell’impresa, eccolo tuonare dal supplemento Sette: “Teresa Ciabatti è la più brava scrittrice italiana”.
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Confessiamo di essere basiti. Non per la vacuità della formula, per quella ostinata coazione a ripetere che da vent’anni cerca di irreggimentare i lettori, e nemmeno per il persistere di quegli osanna furbescamente biforcuti – come il pilatesco “Il libro di cui tutti parlano” e l’ambiguo “Una scrittura unica” – che potrebbero nascondere qualunque cosa, buona o cattiva. Ciò che lascia sbalorditi è proprio l’assunto “Teresa Ciabatti è la più brava scrittrice italiana”, per il semplice fatto che, se fosse vero, tutte le altre scrittrici italiane le sarebbero inferiori, anche le più dotate, e ci chiediamo come si possa accettare, anche concettualmente, una situazione tanto assurda e offensiva. Una spacconata puerile, ripetitiva, insensata, palesemente inattendibile, che sembra uscire da un lungo circuito-loop che ancora non riesce a fermarsi.
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Quanto all’autrice, così confessava in “Cronaca della mia sconfitta” sul Corriere della Sera all’indomani del Premio Strega 2017: “La candidatura al Premio prevede sacrificio, e dunque prima di arrivare al giorno del trionfo, ci sono stati mesi faticosi, specie per me che a detta dei giornali sono la favorita. Vinci tu, Teresa Ciabatti. Già si sa, e si sa così bene che tutto quello che viene adesso è solo recita. Sii gentile, non esporti, parla a bassa voce. Se non fossi tu, non sarebbe necessario il decalogo di socialità, ma sei tu – eccessiva, paranoica – sei tu che devi stare a contatto con altre persone, tu – ansiosa, arrogante – sei solo tu, inopportuna. Il tour di presentazioni inizia con dodici candidati e finisce con cinque. So bene che quando rimarremo cinque sarà più difficile, perché io sono la predestinata, e loro mi guarderanno con astio, arrivando a sminuirmi pubblicamente, e la mia unica reazione possibile sarà quella di scostarmi i capelli dal viso, e mormorare: non è colpa mia”.
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Bene, dopo queste parole illuminanti chiudiamo il cerchio. Cosa lega l’indomabile Antonio D’Orrico a Sandro Veronesi? Semplice. Il culmine degli osanna al suo romanzo visti prima, l’incensamento iperbolico che compare in cima al paginone-viatico allo Strega 2020 non poteva che essere del book-jockey, il canonizzatore cannoniere che spara verso l’infinito: “Il colibrì andrebbe lanciato nello spazio per far sapere agli extraterrestri come eravamo, come siamo stati, come avremmo voluto essere. Da questo romanzo, pieno di coincidenze e collisioni fatali e maligne, si esce imparando la lezione più difficile, quella di morire restando vivi”.
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Manteniamo la calma, e fermiamoci a riflettere sul nome che ritorna: Corriere della Sera. Perché ancora da lì è partito – come si ricorderà – un missile allucinogeno simile, quello che conclude la prefazione del giornalista Massimo Sideri all’ultimo libro di Giovanni Allevi, Revoluzione, edito da Solferino: “Quando, alla ricerca di civiltà extraterrestri, rimanderemo la musica nello spazio con un nuovo Voyager Golden Record, ricordiamoci di mandare anche una composizione di Allevi (No More Tears): parlerà al loro cuore. Se lo hanno”.
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Gli extraterrestri, dunque, l’ultima frontiera dove Giovanni Allevi e Sandro Veronesi rappresenteranno l’umanità intera. Ci scusiamo per la rima, siamo frastornati dalla promiscuità selvaggia fra autori, osannatori, recensori; non resta che spendere le ultime forze nel citare l’incipit di questo Colibrì: “Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante”.
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Un inizio da romanzo ottocentesco, non c’è da sorprendersi. Di recensirlo non se ne parla, c’è già chi se n’è occupato ampiamente; ci sono difetti di stile, ridondanze, passi che con un po’ di editing si sarebbero migliorati; la lingua è opaca e priva di slanci; la rivelazione tragica di stare sempre fermi dove si è viene sterilizzata paragonandola all’iperattività immobile del colibrì, come si fosse in un documentario. La simulazione del candore di parte del narrato neutralizza il pathos e favorisce l’identificazione da parte del lettore, che trova anche testi integrali di mail e sms, materiale grezzo che somiglia a quello della vita comunicativa di tutti, quindi accattivante e rassicurante, senza scossoni o affondi espressivi che possano turbare. Il frasario resta nel livello adatto a essere trasposto al cinema, dove Sandro Veronesi è di casa, quindi sappiamo che ogni aspetto dell’operazione è stato studiato per tendere a un fine. Nel futuro prossimo, “proprio grazie allo sforzo del colibrì splenderà l’Uomo Nuovo”, ha scritto qualcuno; e Veronesi, dal palco dello Strega, si è dichiarato “un italiano vero” – citando Toto Cutugno – perché ha vinto “in condizioni estreme”. Che avrà voluto dire?
Paolo Ferrucci
*In copertina: Roland Topor, “Il bacio del piede”, 1975