14 Marzo 2022

V per Vergogna. Ovvero: Gesù lo svergognato

La vergogna, alle origini del Testo, intacca il corpo, il corpo verifica: “Nudi, i due, uomo e sua moglie, nessuna vergogna” (Gen 2, 25). Vivere il corpo significa ignorare che è nudo: altrimenti, si abita il privato, la privazione, casa-abito, la prigionia della carne. Cadere vuol dire coprire le vergogne, stare in un abitacolo d’ombre, tessere inganni. Adamo, smascherato, vela le vergogne; Gesù, arrestato, le esibirà. La “nudità di tua madre” (1 Sam 20, 30), le vergogne della parentela, la nudità in sé – Dio volge le spalle, acceca tra fasci di luce – è un illecito: si ricopre di vergogna il nemico (disarmato; denudato; spoglio; spoglie; verme inerme, inerte), ci si copre per la vergogna; potremmo definire una storia delle istituzioni allineando ritrosie, coperture, veli e rivelazioni. Il corpo deve essere velato, è il segreto – carne segregata che si sgretola. Tutto, dell’uomo, è trucco, contraffazione, messa in scena; ciò che è naturale si ritorce in blasfemia. Si vela il corpo dell’uomo come quello dell’agnello preparato per il sacro macello.

La vergogna concima il terreno della legge: il capitolo 41 del Siracide lamina la lista delle vergogne: “Vergognatevi… del furto davanti all’ambiente in cui abiti… di essere scortese quando ricevi e quando dai… dell’appropriazione di eredità… di rinfacciare un regalo”. Da carnale, la vergogna diventa sociale, distilla un galateo, un modo d’essere: la forma sostituisce l’istinto, il pudore – anticamera della menzogna – è la formula perfetta al convivere civile. Oggi si è spudorati per sperpero di parole, demenza della libera opinione: lontani dal coraggio di chi vince le convenienze ne siamo succubi con un surplus di viltà; il vigore è sostituito dalla protervia del polemista; sembriamo, ormai, espulsi da ogni enigma, alieni alla vergogna. Quando Paolo insegna che “ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto manca di riguardo al proprio capo, è come se fosse rasata” (1 Cor 11, 5) distilla un codice per affrontare il sacro, mai frontale. La Dimora, nel tormento dell’esilio, è un labirinto di veli e di tendaggi; per accedere all’altare bisogna varcare un canneto di colonne, bosco in marmo; finanche la luce che cola dalle cattedrali è calibrata in liquame d’ombre, perpetua nigredo da cui il sole fiotta a lame, a lastre, ferisce: il proprio mezzogiorno va conquistato tramite l’ascesi. Pudore delle basiliche in penombra, calve, volte al velo.

In guerra, la nudità è ostile, è ostia, segno del più laido martirio: morti denudati, offesi nell’intimo, mortalità svelata. Eppure “I tedeschi nudi sono meravigliosamente inermi. Sono senza segreto. Non fanno più paura”, scrive Curzio Malaparte in una pagina poderosa di Kaputt. “Hanno la carne simile alla polpa dei crostacei: pallida, rosea, e manda un odore acidulo di crostaceo… Se i popoli d’Europa sapessero quale floscia, inerme e morta nudità si cela sotto il Feldgrau dell’uniforme tedesca, l’esercito germanico non farebbe paura nemmeno al popolo più debole”.

Tuttavia, Cristo sconfigge la cosiddetta “civiltà della vergogna”, ne ricapitola la canizie, il balbettio eroico. Il Primo Testamento è intriso di vergogne, la vergogna è il mastice di Israele; Dio è lì, di continuo, a ostentare le vergogne del popolo eletto; nei Vangeli la vergogna scompare; Gesù è il sommo svergognato, lo spudorato. D’altronde, il riscatto della nudità, la resurrezione della carne è qui, in questa vita: perciò le botte, la mutilazione, i fustigatori, le spine, elezione in croce; perciò le mani che toccano il malato, i piedi che vengono unti, il sangue bevuto, il corpo spartito, il corpus domini. Se Dio era invisibile – presente per colonne di fuoco, roveti ardenti, nubi tonanti, voce incessante – ora si offre chirurgicamente agli occhi dell’uomo, mappatura di arti, tassonomia corporale, pura biologia: pare che del santo prepuzio di Gesù esistano, da Roma ad Anversa e Fécamp, almeno diciotto copie. Del corpo di Gesù, svergognatamente, si fa mercato, macelleria di reliquie, nulla si butta via del Cristo come del maiale, altro che Agnus Dei. Gesù ci ricolloca in Eden, quando non si aveva vergogna della propria nudità e tutto era scoperto, privo di aggettivi, esatto, dato.

Eppure, che genio polemico quello di Tertulliano, campione dell’era della vergogna, che impone la penitenza – “Pertanto, dal momento che sai che dopo la prima difesa che Dio ti ha dato nel battesimo, contro l’eterna fiamma infernale, ti resta ancora nella Penitenza una seconda risorsa, perché tu vorresti abbandonare la salvezza dell’anima tua? perché tu ritardi a ricorrere a un rimedio che, sai, deve guarirti?” –, il divieto dal frequentare i teatri – “ci vien fatta proibizione assoluta di tenerci lontani da ogni forma di vergognosa scompostezza e di abbandono: è per questo che noi stiamo ben lungi dal teatro” –, la dedizione del pudore in attesa di un’imminente palingenesi. Sarà la mistica, per lo più femminile, a ricomporre il legame, svergognato, con il corpo: Cristo si ama, l’estasi – quella micidiale, erotica, abbagliante di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria, a Roma, scolpita con magnetica voluttà dal Bernini – è lo strepitio della carne, gravame di singulti, sotto i colpi di amore. Anche il verbo sbanda, svergognato, sballato, “il mio dire è un guastare, per questo dico che bestemmio”, dice Angela da Foligno al suo confessore. Veronica Giuliani, ragazza di spaventosa bellezza, viene “ispezionata corporalmente in modi umilianti”, costretta a “leccare sterco, inghiottire insetti” (Giovanni Pozzi): tutto è corpo e putrefazione, gloria e abiezione, amore e morbo.

Ma è bello, a tratti, “vestire il sacco e lo spavento… radersi il capo” (Ez 7, 18), ritrarsi nel segreto, preferire il nascondiglio (“si tenne nascosta per cinque mesi”, è detto di Elisabetta, Lc 1, 24), perché è lì che la luce, come mosto, accade, lignea. Ad alcuni è data l’opera di tessitura, e a volte è il velo a rivelarci, divinità di nebbie.

Insieme ad Alessandro Dehò, ebbri di nebbia, barcollando, tentiamo un Nuovo Alfabeto del Sacro. Questa è la V di Vergogna.

***
Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e si denudò all’interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro, non videro la nudità del loro padre. (Gn 9,20-23)

Il costruttore d’arche, il prescelto, il salvato dalle acque, giunto sulla terraferma, naufraga nel frutto delle sue stesse mani. Sproporzione diluviale e di acini maturi. Noè non può nemmeno provare vergogna, portato a largo dalle onde del vino si abbandona ai flutti dell’inconsapevolezza. Relitto di santità rimane, nudo, in balia di sé stesso, la tenda però, pur non avendo radici non ha chiglia intagliata nel legno e la sua tela immobile non è vela obbediente ai venti. Incagliata, nessuna rotta, lontani i tempi del mare aperto, come trappola scatta a imprigionare il patriarca in balia dei suoi eccessi.

Anche Giuda finirà appeso all’albero maestro di una nave arenata nel senso di colpa, nessun vino ad alleviare la pena del tradimento, stesso però l’urto subito da una violenza scatenata da una tempesta fuori controllo.

Pietro aveva giurato di non abbandonare, a costo della vita, non sarebbe sceso dal vascello speronato dalla furia degli assassini. Invece approdò, e si mischiò alla gente di quel porto divino che è Gerusalemme. Nemmeno per lui la transitoria pace dello stordimento, lucido come la lama di una spada cercava calore al fuoco dei disertori e sprofondava in un mare di lacrime.

Si può solo presumere cosa sia il sentimento di vergogna, certo è qualcosa che si patisce, morsica il cuore a piccoli bocconi, prova godimento nelle rese, negli errori di valutazione, nelle rotte mentali che poi, nel concreto non appaiono mai così perfette. La vergogna è il frutto di una costruzione personale sacrificata al soffio violento degli eventi.

Si possono solo ipotizzare gli effetti della vergogna, ciò che rimane costante è una sorta di deriva personale, l’impressione netta di non essere più in grado di governare il vascello, tempeste che non vengono sedate e che fanno salire l’acqua fino a togliere il respiro. Tutto intorno il mondo che prima si giurava di poter governare assume l’ambiguità di una giungla, dall’intreccio dei rami giuriamo lampi di luce micidiali negli occhi di chi non vediamo più capace di nessuna pietà. Il prossimo è belva in agguato.

Ognuno vive la vergogna a modo suo, chiudendosi in una tenda, appendendo per sempre il respiro al ramo oppure affogando di lacrime. Ognuno patisce la vergogna di non essere stato in grado di rimanere all’altezza del sogno, costante è il sentirsi gettati in mare aperto, ogni altro è minaccioso. E non ci sono colpevoli a cui aggrapparsi. Questo il vero dramma. Assenza totale di alibi, la vergogna si nutre della presunta impunità del mondo circostante, noi siamo gli unici e definitivi colpevoli.

Non prova mai vergogna l’uomo avvezzo ai capri espiatori. Non conosce vergogna chi non costruisce meccanismi esistenziali potenzialmente letali. La vergogna è una bestia che abbiamo cresciuto noi, ha la forma di un vigneto coltivato, di un messia o di un giuramento.

La vergogna è la vita fuori controllo, l’attimo esatto in cui comprendiamo che lo squarcio sarà causa del nostro naufragio.

Il nostro destino scivola così totalmente in mano d’altri, al giudizio altrui, fisica o intima nudità siamo comunque gente in balia del fratello.

Noè mostra la vulnerabilità, Giuda la scopre nel giudizio impietoso dei complici, Pietro la impara al terzo canto di un gallo. E non si può far altro che aspettare. E saranno gli sguardi incrociati da quel momento a fare la differenza. Sarà la fede, nient’altro che la fede nel fratello a decretare approdi profondamente differenti.

Anche Cristo naufraga sul Calvario, nudo ed esposto, ma non avrà vergogna lui, la sua vulnerabilità declinerà lo scandalo in profezia. Gli occhi aperti, sempre, come in una forma di resurrezione anticipata, la sua cocciuta fede in qualche minimo brandello di umanità a trasformare il tracollo in giudizio. Lo spettacolo della croce è vergognoso per noi che attacchiamo non per lui che subisce. Lo spettacolo morboso del condannato esposto come trancio di vittima macellata sarà eternamente la nostra di vergogna, non la sua.

La cocciuta fede nell’uomo, una torsione inattesa e miracolosa, la vittima a giudicare l’assassino, la vergogna che squama via dal derelitto per incastrarsi nel cuore del carnefice, questa è la croce. Piangevano e si disperavano, pare, alla fine, gli assassini. Anche loro affogati dal delirio di una tempesta prodotta dall’accumulo paziente di odio. La vergogna è una ritorsione, il crollo degli alibi, capri espiatori sgretolati dalla forza della verità. Non poteva subir vergogna l’innocente, il discolpante. La vergogna è negli occhi di chi cerca sempre e solo un colpevole.

Non possono vergognarsi i traditi, la vergogna è il boccone amaro del traditore.

La vergogna non è nel patriarca nudo e fragile, il condottiero garante di una seconda creazione, ma nello sguardo di Cam, padre di Canaan, che vede e parla e tradisce. Non sappiamo cosa disse, ma poco importa, suo fu lo sguardo assassino, sua l’incapacità di tacere, sua la violenza del figlio che uccide il padre non provandone compassione.

La vergogna che esplode in Giuda è scheggia appuntita che parte dai mandanti del tradimento, Giuda si scopre nudo, vulnerabile, non incrocia occhi compassionevoli, naufraga nell’orrore da lui stesso prodotto, cercherà un colpevole, purtroppo lo troverà.

Anche Pietro si scopre colpevole, prova la profonda vergogna del traditore, ma incappa in uno sguardo, nel Suo, e si fida. Come Cristo in Croce anche Pietro crocifisso a sé stesso decide di fidarsi ancora, nonostante tutto. Se Pietro non muore è per uno sguardo di pietà smisurato ben più di un miracolo, ma quello sguardo è il suo non è quello di Cristo, è lui che compie una torsione magnifica, crede che sulla croce venga ucciso ogni peccato.

Io non so cosa sia la vergogna, ma so che ci sono uomini che ne muoiono e sguardi che sanano. Non so cosa sia la vergogna ma credo che ognuno possa arrivare a naufragare nelle intenzioni che credeva buone, nelle pieghe dei sogni che declinano in incubi. Io non lo so. So solo che si può sempre afferrare un mantello e camminare a ritroso, come Sem e Iafet, con l’attenzione sacra di non calpestare, di non abusare della fragilità altrui. E si può camminare in silenzio, stendendo un velo sull’altare deturpato del padre, senza giudizio, con la cura di una madre, con la compassione che impedisce l’accanimento. E non provare vergogna, finalmente smettere di provare vergogna, per quel poco che siamo, carne nuda esposta a tutto.

Alessandro Dehò

Gruppo MAGOG