22 Ottobre 2020

Inconsistenza artistica e inutili sermoni politici: esegesi dei “walteromanzi”. Ovvero: Veltroni & la letteratura italiana

«La famiglia va in vacanza, la casa vuota. Di ogni cosa, cibo compreso. Gli uomini lasciati da soli, o forse io in particolare, sono una catastrofe. Stracchino, prosciutto, dolci confezionati, meglio se facili da scartare. Al massimo una botta di alta cucina con i “Quattro salti in padella”, un primo surgelato da preparare in pochi minuti. L’occhio in queste situazioni deve sempre andare alla data di scadenza stampata sulle buste dei cibi reperiti nel frigorifero. Può capitare altrimenti di mangiare uova di quando c’era Fanfani al governo. E di trovarle buone». (Walter Veltroni, Ciao, Rizzoli 2015).

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Questo è il Walter Veltroni – capace di mangiare uova di sessant’anni fa e trovarle buone – delle prime pagine di Ciao, il libro dove racconta la sua esperienza di orfano precocissimo ed elabora il lutto per la morte del padre, giornalista e dirigente Rai, venuto a mancare a 37 anni. Un racconto necessariamente intimista, anche liberatorio, le cui motivazioni non possono che uscire dal profondo ed esprimersi nella forma più pura, quasi confessionale; ma un racconto che, purtroppo, mescolando autofiction e invenzione, denuncia fin dalle prime pagine (e questo rattrista) le note operazioni di assemblaggio e distrazione, i soliti canoni mal ricalcati, le scorciatoie e altri fattori tipici dei “walteromanzi” veltroniani.

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Torniamo su questo tema perché sono stati fatti alcuni rilievi sulla nostra stroncatura del romanzo “giallo” Assassinio a Villa Borghese, nei quali ci viene fatto notare che, ammessa l’incontestabilità del giudizio su quel libraccio raffazzonato e inutile, abbiamo liquidato come scadenti anche gli altri walteromanzi, senza entrarvi nel merito nemmeno con una riga, quindi dando per assodato ciò che invece si sarebbe dovuto dimostrare. Su questo punto dobbiamo rispondere che in quella sede (purtroppo o per fortuna) non ci si poteva dilungare sulla produzione walteromanzesca, sia per ragioni di spazio sia per non sovrapporre troppa carne al fuoco, per la quale sarebbero servite pagine e pagine. Inoltre, leggere e commentare quel materiale narrativo in maniera sistematica potrebbe risultare ripetitivo, perché gli strumenti, le materie prime, la scarsa abilità dell’autore – che non migliora col tempo – non offrono opportunità per un discorso articolato e proficuo.

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Ad ogni modo, visto che veniamo chiamati all’appello, qualche considerazione la dobbiamo fare. Cominciando dal passo di Ciao che si legge in epigrafe, che vorrebbe essere colloquiale e antiletterario per strizzare l’occhio al lettore (il solito trucco “chissà in quanti si riconosceranno”), vediamo che produce solo un effetto sciatto e inopportuno. In un libro tanto importante, dove si vuol mettere a nudo la dorsale della propria vita, in cui non si è conosciuto il padre se non attraverso le proiezioni di un figlio, invece di impostare una narrazione incisiva, in cui dare il meglio di sé, si piazzano subito le solite citazioni, i cliché sociologico-commerciali, le metafore banali. L’inaccettabile product-placement del noto surgelato Findus (qualcuno spieghi cosa c’entrano i “Quattro salti in padella”) sembra emulare il bombardamento di marche nei libri di Federico Moccia; il colloquialismo “una botta di” è incompatibile col salto di registro “i cibi reperiti”; il proclamarsi inabile in cucina come “gli uomini lasciati da soli” è una generalizzazione penosa, fatta per fingere modestia e captare la benevolenza del lettore.

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Ed è solo l’inizio. Perché in questa specie di autofiction, o confessione, già nelle prime pagine viene impostato lo scenario che qualche anno dopo avrebbe prodotto lo sciagurato Assassinio a Villa Borghese: “Il Parco dei Daini è un’enclave nell’incantevole sistema di Villa Borghese. Il più bel parco del mondo, con la sua forma a cuore. L’unico spazio verde dove si possono ammirare, insieme, il Davide con la testa di Golia di Caravaggio, nella Galleria Borghese, Il giardiniere di Van Gogh, in quella di Arte Moderna, Il Sarcofago degli sposi, al Museo Etrusco di Villa Giulia, e dove si può vedere un capolavoro restaurato alla Casa del Cinema o ascoltare i versi di Shakespeare sotto un cielo di stelle al Globe Theatre”. E si continua ancora, elencando opere d’arte, il teatro dei burattini, il Pincio, la Valle dei Cani, il Galoppatoio. “È il paradiso? No, è Villa Borghese”.

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Anche questo è un passo rivelatore: si parte con una vera e propria descrizione da guida turistica, un collage di nomi e citazioni fatto per riempire facilmente la pagina e suscitare empatia, per andare avanti con uno stile indefinito, spurio, non lavorato, incoerente nel suo sviluppo. Seguono i soliti omaggi a grandi artisti, di cui l’autore sembra voler raccogliere la luce riflessa; brani commoventi sulla mancanza del padre, che gli ha condizionato la vita, inquadrati in un’atmosfera che diventa apologetica (“Sei stato orgoglioso della mia vita? Di quello che ho fatto? Un po’ mi vergogno, ma per me è stato importante. Se mi hai visto, se sei stato con me, vorrei che tu fossi stato contento. Quello che sono riuscito a fare lo sai. All’inizio ho corso come un matto”). Un’immersione in una sfera quasi regressiva, dove si tende alla dimensione magica dell’infanzia, in una proiezione nostalgica tutta ideale e senza spigoli, lontana da qualsiasi ipotesi di realtà.

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L’impressione che si ricava, nel complesso, è la netta incapacità – o rifiuto – dell’autore di stare al passo coi tempi. Forse non riesce a respirarne lo spirito, anche per la consuetudine di essere protetto da un sistema di stampo politico-egemonico che ne ha sempre garantito la presenza e la posizione, a prescindere da ogni condizione ambientale. Oggi più che mai, Walter Veltroni assume una fenomenologia che va vista in quel disegno di predominio culturale che egli va tracciando da anni col sostegno dei suoi sodali, che spaziano dalla sfera mediatica a quella politica, dai giornali ai libri al cinema e agli spazi televisivi consociati. La presenza capillare e permanente, la produttività costante, il messaggio ripetuto e consolidato, gli appoggi politici indiscutibili, gli strumenti più efficaci sempre a disposizione, tutto serve a persuadere il pubblico dell’imprescindibilità della sua presenza. Una macchina propagandistica formidabile, il cui obiettivo è chiaro: affermare il concetto secondo cui chi legge e consuma cultura oggi non potrà non leggere e apprezzare Walter Veltroni. Ma resta il fatto, chiaro e concreto, che i suoi sono – e secondo noi resteranno – solo walteromanzi, ossia prodotti editoriali connotati in modo inconfondibile, fatti per stagnare nella fascia bassa dello spettro culturale del Paese. Com’è stato osservato da più parti, sembra evidente che Veltroni usi la narrativa e il cinema per continuare a occupare un ruolo pubblico, avendo perso la sua presenza politica, e sotto questo aspetto si sia messo a descrivere le nostre vicende recenti come un documentarista che osserva dall’esterno, come se si trovasse in una realtà altra, dimentico di sé, dei suoi fallimenti e delle sue responsabilità.

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Ciò viene a chiarirsi nel walteromanzo successivo, Quando, edito sempre da Rizzoli nel 2017, una costruzione narrativa talmente trita e banale da rasentare il patetico. La trama in breve. Giovanni si risveglia dal coma nel luglio del 2017: gli ultimi ricordi prima dell’incidente lo vedono a vent’anni mentre partecipa al funerale di Enrico Berlinguer, in piazza San Giovanni, il 13 giugno 1984. Dopo oltre un trentennio, si trova in un mondo dove tutto è cambiato: i partiti, gli stati, i personaggi, il modo di vivere, di conoscere, di comunicare eccetera. Così Giovanni si affida alla suora che l’ha accudito per buona parte della degenza, a una psicologa e al figlio di questa, un ragazzino “saggio e disilluso”. Già l’idea di un ragazzino saggio e disilluso è posticcia; ma soprattutto è pluri-masticata l’idea del comunista nostalgico che torna in vita quando Berlinguer non c’è più da trent’anni: la stessa situazione – comica – del “compagno Antonio” interpretato da Antonello Fassari nella trasmissione della Rai Avanzi del 1993, dove il comunista caduto in coma si risveglia dopo aver ascoltato Contessa di Paolo Pietrangeli, e con l’eskimo e i baffoni piange la scomparsa di tutti i suoi miti e riferimenti.

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Lo stile di questo walteromanzo è davvero pessimo, pieno di ripetizioni, didascalismi, metafore scontate o fuori luogo, oltre a un virgolettare inopportuno, parafrasi scolastiche, incisi del narratore che s’intromette, registri stilistici che cozzano, profusione di virgole inutili, dialoghi che servono solo a spiegare le cose eccetera. Insomma, siamo di fronte a una sostanziale inconsistenza artistica, che crea pasticci anche nel gestire i punti di vista del narrato, dove a volte non si capisce se a raccontare o a riflettere sia un personaggio, o il narratore onnisciente che entra in campo. Per non dilungarci, ne forniamo un campionario:

“Era di una bellezza meravigliosa e mascherata”; “la meravigliosa confusione di quella soffitta”; “provò la meravigliosa sensazione…”; “decidere nelle interminabili e meravigliose assemblee…”; “rivivere l’incanto e la meraviglia della Festa dell’Unità…”.

“«Mi viene da piangere. Giovanni, se muore Berlinguer, finisce tutto»”; “«Te ne accorgerai ora che non c’è più la Democrazia Cristiana. Vedrai quello che accadrà ai nostri valori…»”; “Dall’altra parte Pier Paolo Pasolini, per le cui idee ‘irregolari’ Giovanni e Flavia litigavano spesso”; “Era cosciente, queste cose si sanno e danno sicurezza, di essere considerato uno dei ‘belli’ della spiaggia”; “la mano sulla testa per trattenere la cuffia che nel suo ordine chiamavano ‘cornetta’”.

“Era stato il dubbio, proprio il dubbio, la prima fermata d’autobus del suo viaggio verso Gesù”; “Come un giorno che non scorre, resta fermo, rifiuta il tempo”; “saliva, forte e stentoreo, un inno”; “salutare ogni giorno un corpo spento, senza soffio di vita”; “Si sentivano soltanto i passi di altri che si precipitavano correndo”; “la piccola folla che si era accalcata si aprì come le acque che si dividono”.

“Tutti questi pensieri, insieme a una specie di time lapse del volto di Giovanni che invecchiava”; “Giovanni sognava e il suo universo onirico…”; “Lui, al contrario, si beava della luce sbarazzina e irriverente, che lo rendeva, non sembri assurdo, felice” (ecco il narratore che s’intromette; quanto alla “luce sbarazzina”, come non ricordare l’aria dinoccolata e la lealtà somatica di Enrico Vanzina?). “L’unica concessione, ma era un segno di libertà, era il rifiuto del reggiseno, considerato, giustamente, un’inutile gabbia alla natura delle proprie forme”; “avrebbe dovuto salutarla, al mattino, quando arrivava in spiaggia. Ma era sicuro, non raccontiamoci storie, che non ne avrebbe mai avuto il coraggio” (giustamente, e non raccontiamoci storie: così s’infila il narratore).

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Concludendo, non ci si venga a dire che questa è letteratura. Non serve scimmiottare le virgole di Tomasi di Lampedusa (“mostrava soltanto un’austera, ma pulita, facciata”) o di Alberto Moravia (“Attraverso il telefono, infatti, volta per volta, in maniera oscuramente irregolare, Cecilia, adesso, mi fissava il giorno e l’ora dei nostri appuntamenti”) per incantarci. Non ci si provi nemmeno, soprattutto alla luce della vergognosa tirata di propaganda politica che si legge verso la fine del libro, in cui l’autore tenta strumentalmente di giustificare l’opera di trasformazione della sinistra italiana, come per cercarne un viatico e un’assoluzione: “Proseguì Andrea: «Vedi Giovanni, per quanto tu possa essere stato informato, non potrai mai comprendere davvero la profondità sconvolgente di quello che è accaduto alle nostre coscienze. Avevamo una casa, qualcosa di grande e confortevole, in cui ci sentivamo come una famiglia. Eravamo coscienti che dovevamo ammodernarla in fretta, e credevamo di avere gli utensili giusti per riuscirci. Ma a un certo punto è venuta giù una frana enorme dalla montagna […] Bisognava risorgere come un fiore nella pietra. Sai, Giovanni, chi usò quella metafora nella più infuocata delle assemblee della svolta? Tuo padre. Aveva le lacrime agli occhi ma esortò tutti a continuare. Ci diceva: “Ora che non abbiamo più montagne da cui doverci difendere. Ora dobbiamo riempire la nuova terra dei semi. Dei nostri fiori avranno bisogno. Sempre, tutti”. Per lui i fiori erano i valori profondi della sinistra. “Ora siamo più liberi di lasciarli vivere, è proprio questo il nostro momento”. Così Ettore convinse i più anziani e diede una speranza ai più giovani. E quando in tutte le maggiori città furono eletti sindaci di sinistra, quando l’Ulivo vinse le elezioni, quando Ciampi e Napolitano diventarono presidenti della Repubblica, quando nacque il Partito democratico tuo padre ci ricordava sempre quelle parole».

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Amen. E dopo questa mega-rappresentazione politica, il passo successivo è stato Assassinio a Villa Borghese, l’obbrobrio su cui non vogliamo tornare. Una specie di ossessione: già nel 2009 Veltroni raccontava al famigerato supplemento “Sette” del Corriere della Sera che l’atto da sindaco della capitale di cui andava più fiero era la riqualificazione di Villa Borghese. Tutto il resto, com’era prevedibile, è passato in cavalleria.

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG