Ogni tanto li guardo. O meglio, li vedo continuamente, perché mi si piazzano davanti, pur avendo tutta la spiaggia libera. Sono numerosi, più colorati di un gay pride. Arrivano loro e fanno un casino dell’altro mondo. E vabbè, non posso certo pretendere che facciano silenzio in spiaggia, perché io sto scrivendo e leggendo. Non è mica una biblioteca. Mi adatto. Magari tiro una bestemmia, però poi mi passa. Faccio anche di tutto per estraniarmi dai loro piccini che fanno domande assurde, tipo “Papà, ma l’acqua e bagnata?”. Bisogna capirli. Anche io sono stato bambino. Mio padre mi ha detto però che, fin da allora, in spiaggia, prevalentemente guardavo le signore – nelle sue parole: “Papà ti aveva dato dei valori”.
Arrivano, dicevo. Occupano su per giù una superficie pari a un campo di calcetto. Hanno otto ombrelloni, venti borse termiche, quarantaquattro seggioline, diciotto secchielli e palette, salvagenti che neppure la Tirrenia, tende da campeggio.
Non importa l’ora. Questa gente sta sempre mangiando. Alle nove di mattina, come alle sei di sera, eccoli con panini che sembra non abbiano mai visto da mangiare. Questo i grandi, perché ai bambini danno la frutta “che ti fa bene” – hai capito i figli di buona donna!
Iniziano discussioni assurde. Le mamme – non so perché, ma non sono mai famiglie singole – si scambiano aneddoti sulle loro vicissitudini con i figli: “Mario non mi ha fatto dormire per tre anni”, “Lascia perdere che lo sto ancora allattando adesso che ha cinque anni”. A furia di sentirle, ho cominciato a venire sempre fuori, anche quando una mi dice di prendere la pillola – sapete com’è, non si sa mai: io la notte preferisco dormire.
I mariti sono anche peggio. Braccio tutto tatuato esibito con grande orgoglio, neanche fosse la pergamena della laurea in Scienze nucleari conseguita a Oxford. Birra messa bene in mostra – non si tratta tanto del piacere di bere, perché si tratta palesemente di ubriaconi dilettanti. Stanno parlando di Ronaldo e io non so neanche chi cazzo sia. Non seguo il calcio da quando ho scoperto il porno, in terza media – ho sempre preferito gli spettacoli istruttivi.
Insomma preferisco il mio amico Mustafa. Vende collanine del menga e altra paccottiglia. Ne è ben conscio. Mi saluta: “Ciao, negro” e ride. Decisamente, del politicamente corretto non sa che farsene. Va in giro gridando “È arrivato Mustafà, ciappa qui, ciappa là”. “Brutto figlio di una nigeriana”, gli ho detto l’altro giorno, “mi toglieresti una curiosità?”. “Dimmi tutto, uomo bianco cazzo piccolo”, mi ha risposto lui ridendo. “Ma quante mogli hai lì in Africa?”. “Tre”. “E chi le soddisfa?”. Ha riso come sanno fare solo i neri. “Io, quando in Africa”. “E quando non ci sei?”. “E che ne so! Lo sai, le donne sempre puttane”. Mi piace l’amico Mustafa. Non corrisponde per niente al modello del povero migrante. Cerco ogni volta di offrirgli una birra, ma non accetta mai per questioni religiose. “Senti, puoi avere tre moglie e non puoi berti una birra? Dai, fratello, Allah, ti perdonerà”. Ma lui sostiene che chi beve troppo scopa poco. Ho cercato di spiegargli che io sono l’eccezione alla regola.
Inevitabilmente, tra maschi, finiamo sempre per parlare di lunghezze. “Io più lungo”, mi fa lui. “Se continui, ti rispedisco in Africa”, lo schernisco io, “Non mi piace la concorrenza”. Ridiamo come idioti.
I vicini di ombrellone ci guardano male. Mentre sono girati, io li indico. “Vedi Mustafa, quelli sono dei bianchi, ma appartengono a una razza inferiore. Basta vedere i loro tatuaggi. È chiaro che sono degli inferiori”. “Inferiori”, ripete, “Secondo me, anche cazzo piccolo”. “Sicuro, Mustafa, sicuro”.
Matteo Fais