Si è concluso il 3 novembre scorso il convegno organizzato dall’Università degli Studi Guglielmo Marconi dedicato a Gianni Vattimo e al pensiero debole: due giornate di lavori che hanno visto la partecipazione di vari pensatori, tra cui, vogliamo ricordare, Felice Cimatti, filosofo del linguaggio, e Leonardo Messinese, filosofo e studioso di Bontadini e Severino.
Com’è noto, nel 1984 fu pubblicato in Italia, a cura del filosofo torinese e di Pier Aldo Rovatti, il volume collettivo Il pensiero debole, al quale contribuirono intellettuali di diverse discipline e tradizioni culturali, tra cui Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Diego Marconi. Il libro fu tradotto in varie lingue europee e suscitò in Italia un dibattito che in qualche misura dura ancora oggi – si pensi, per esempio, al Manifesto del nuovo realismo (2012) di Maurizio Ferraris o Della realtà. Fini della filosofia (2012) dello stesso Vattimo. L’anno successivo alla sua pubblicazione, la rivista Aut-Aut dedicò alle tematiche del pensiero debole un intero volume. E ancora nel 1996, a distanza di più di un decennio dalla sua pubblicazione, Gianfranco Basti e Antonio Perrone pubblicavano Le radici forti del pensiero debole, in cui la lettura in chiave debolista di Heidegger era molto presente.
Se ci occupiamo della filosofia italiana degli ultimi cinquant’anni, non possiamo non fare i conti anche con un altro protagonista della cultura italiana: il filosofo, anzi l’«iperfilosofo», come lo definì il critico letterario Alfonso Belardinelli (Il Foglio, 12 Ottobre 2015), Emanuele Severino. A volte si è potuta avere la sensazione che la filosofia italiana della seconda metà del Novecento si giocasse proprio tra questi due poli opposti: Severino vs. Vattimo. Entrambi ottimi comunicatori e utilizzatori dei mass media. Entrambi firme prestigiose di importanti quotidiani nazionali. Al grande pubblico Vattimo si è sempre presentato come il filosofo della debolezza, del pluralismo, della frammentazione del linguaggio e della ragione. Alla ragionevolezza e alla plausibilità, come unici possibili criteri del discorso filosofico, Severino ha contrapposto l’idea di un sapere filosofico forte, cioè assoluto, incontrovertibile. Se Vattimo è un apologeta del nichilismo, per Severino il nichilismo è follia, anzi la radice di ogni follia. Se per Vattimo il cristianesimo è un potenziale alleato della filosofia, perché realizza sul terreno religioso un indebolimento del Dio della metafisica classica, per Severino, al contrario, il cristianesimo, come tutte le altre visioni religiose e filosofiche del mondo (tranne la sua), è da capo errore e follia. Anche i modi in cui i due autori pensano il rapporto tra cristianesimo e chiesa cattolica differiscono in maniera importante. Per Vattimo, il dialogo tra il messaggio cristiano e la dottrina cattolica non è monotono e non esclude conflitti e contraddizioni. Al contrario, nel cattolicesimo Severino vede la coerentizzazione, per così dire, della parola di Gesù (cfr. «Quando Severino costruiva un cristianesimo totalitario», Pangea, 02 febbraio 2021).
Insomma, risulta difficile individuare un tema intorno al quale registrare una convergenza di opinioni tra i due filosofi. Eppure, il convegno del 3 novembre scorso si conclude con un intervento di Messinese, il quale scommette proprio sul dialogo tra l’ontologia debole di Vattimo e l’ontologia forte di Severino. Secondo Messinese, conviene «non opporre la prospettiva vattimiana e quella severiniana astrattamente […], le due prospettive potrebbero essere messe in dialogo». Come? Il punto di partenza da lui proposto è quello del rapporto tra filosofia e storia. Accostando le due prospettive filosofiche, non sarebbe del tutto implausibile, sostiene Messinese, definire un essere «intermedio» – l’uomo, l’esistenza, la storia – in cui possa manifestarsi, per così dire, un genere di «verità intermedia», la quale si collochi, dal punto di vista della prospettiva severiniana, tra l’errore e la verità dell’essere; e ciò sarebbe reso possibile dal fatto che Severino non ha mai negato l’esistenza della storia, ma soltanto che in essa si manifesti la verità.
Ora, è noto che il linguaggio di Severino non sempre è letterale. Nel linguaggio dell’ontologia severiniana, che esista la storia e che in essa non possa manifestarsi la verità significa, fuor di metafora, che il mondo dell’esistenza umana – quel mondo, cioè, fatto di progettualità, scelte, errori etc. – è il contenuto di un errore, ma che l’errore, in quanto errare, in quanto credenza o asserzione, è pur sempre qualcosa, esiste per l’appunto come credenza che la storia esista. In altre parole, per Severino ad esistere è solo la persuasione erronea che esista la storia, non il contenuto di quella persuasione, la storia. Si tratta dello stesso rapporto che Severino istituisce tra la contraddizione intesa come contraddirsi e la contraddizione intesa come contenuto del contraddirsi. Come a dire, esiste la credenza che Babbo Natale esiste, ma non Babbo Natale. Parafrasando nel linguaggio severiniano, potremmo forse dire, metaforicamente, qualcosa di simile: Babbo Natale dice le bugie (non dice la verità, non è il luogo in cui si manifesta la verità). La storia pertanto, nella prospettiva severiniana, non può costituirsi come luogo della manifestazione di una «verità intermedia», come Messinese suggerisce, semplicemente perché è un non-luogo, perché non esiste. Qualche tempo fa, recensendo un libro di Severino, Dike (2015), Corrado Ocone, studioso di Benedetto Croce, scrive: «di fronte alla struttura del tutto o dell’essere – uno, indivisibile, immobile, eterno – un concetto come la giustizia così come è umanamente intesa non può esistere» (www.huffingtonpost.it, 11 settembre 2016). Usando quelle stesse parole, potremmo anche dire che di fronte all’essere severiniano, la giustizia e la storia, come umanamente intese, non possono esistere, sono contenuti di un contraddirsi.
Sembrerebbe allora che mettere in dialogo le due prospettive filosofiche, quella vattimiana e quella severiniana, nonostante le buone intenzioni, sia un’impresa più ardua di quanto non emerga dalle parole di Messinese, il quale ricorda un confronto tra Vattimo e Severino, svoltosi in una trasmissione televisiva RAI, La clessidra, poi riportato nel libro Filosofia al presente (1990, pp. 25-39) o anche in La legna e la cenere (2000, pp. 83-94). Ecco, quel confronto si concludeva con queste parole di Vattimo:
«finalmente abbiamo avuto una puntata de La clessidra in cui non si è d’accordo quasi su niente».
E i motivi di quel disaccordo sono accennati dallo stesso Vattimo e sono di carattere linguistico: il linguaggio pre-moderno («antico», «arcaico») di Severino appare a Vattimo inconciliabile con le istanze della filosofia postmoderna. La kenosis del linguaggio comporta uno svuotamento delle sue pretese metafisiche assolute. La povertà linguistica dell’ontologia severiniana, nella quale la realtà è pensata attraverso i due blocchi monolitici delle categorie dell’essere e del nulla, è forse in grado di realizzare un sapere assoluto, incontrovertibile, impenetrabile, ma non è in grado di pensare la complessità, quella complessità a cui Vattimo guardava ancora come compatibile con le istanze di un pensiero filosofico unificante, a patto però che l’unità filosofica fosse concepita nei termini di un rifiuto delle pretese assolutistiche della metafisica classica, alla quale Severino rimane, dopo tutto, a suo modo, saldamente ancorato.
Per Severino, la contraddizione è segno dell’inesistenza dei suoi contenuti. Per Vattimo, la contraddizione si costituisce all’interno di una lingua storicamente determinata. Pertanto non è così evidente che essa segnali sempre l’inesistente. In alcuni casi, la contraddizione può essere piuttosto pensata come sintomo dell’inadeguatezza del linguaggio all’interno del quale si costituisce.