
Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio
Letterature
Silvano Calzini
Leggo di Vasko Popa leggendo Ted Hughes:
“La sua poesia è vicina al mondo della musica, dove un insieme di segni e forme, accolti dal mondo esterno, creano fondamentali combinazioni che spesso, nelle loro progressioni e simmetrie, presentano qualcosa di stranamente matematico, eppure sembrano appartenere al mondo dello spirito e del cuore… È la Lingua Universale che sta dietro al linguaggio, e quando il tessuto poetico del codice verbale scompare… a noi restano concreti oggetti ed eventi geroglifici, che significano in maniera diretta, terreni e spirituali a un tempo, denotativi e visionari”.
Il saggio su Vasko Popa è accolto in Winter Pollen, raccolta di occasional prose di Hughes del 1994, ma è scritto nel 1969, intorno alla traduzione di alcuni testi di Popa a cura di Anne Pennington. Hughes, a quella matrice cronologica, sta lavorando al suo capolavoro – così lo dice lui – Crow, opera misterica e magmatica, specie di atto sacro mitologico: gli ‘serve’, per così dire – il poeta: sovrano vampiro –, il linguaggio di Popa, “manifestazione unica di poema nazionale, avventura psicologica, sogno tribale di densità mitica, commento privato alla storia”. La didascalia calza a perfezione per descrivere Crow.
Già. Ma chi è Vasko Popa? Nato in Serbia – allora Jugoslavia – nel giugno del 1922, Vasko Popa è tra i massimi poeti dell’Est Europa. Studi a Belgrado e a Vienna, Seconda guerra vissuta contro i nazisti – fu internato nel campo dell’attuale Zrenjanin – Popa è diventato l’autorità massima della poesia serba. Lo dice il suo pedigree: nel mondo spagnolo ha trovato un traduttore d’eccellenza in Octavio Paz; in Francia Gallimard pubblica una sua raccolta, Le ciel secondaire, a cura di Alain Bosquet; negli Stati Uniti è felice, invece, la sintonia con Charles Simic, sintetizzata da un libro antologico, Vasko Popa, appunto, edito nel 2019 dalla New York Review Books: nel testo introduttivo, Simic apparenta Popa a Camus e definisce la sua opera “un evento letterario tra i più originali del secolo scorso”.
È la formula lirica di Vasko Popa, per così dire, ad aver attratto questa costellazione planetaria di poeti. Semplicità al diamante, dominio dell’assurdo, prospettiva sfalsata, che spiazza, scarna aggettivazione, l’aggettante mistero, all’agguato, con la maschera del lupo, ovunque. La ‘cosa’ viene consegnata non come feticcio bensì come amuleto; le forme umili del coerente creato vengono stese su un panno, donate nuove, pulite; la lumaca, in Popa, dialoga con la stella. Il ‘nuovo’ non è nella frattura verbale, nell’ostensione degli aggettivi d’oro, nella pretesa di leggenda: basta spostare l’asse prospettico, girare il quadro, mettere il tavolo presso la finestra che sfocia ad Est. Esattezza, obliqua ubiquità.
Tuttavia, l’importanza di Popa nel resto del pianeta poetico non ha proporzione significativa in Italia. Vasko Popa, da noi, è un illustre sconosciuto: morto con onori a Belgrado, nel 1991, nessun volume, in Italia, ne coglie l’opera. La sua poesia, da noi, è culto per pochi affini: nel 2009 Lorenzo Casson ha curato una selezione delle sue liriche per la rivista “In forma di parole”; nel 2015 la rivista on line “L’Ombra delle Parola” gli dedica un approfondimento. Eppure, è stata Joyce Lussu a capire, tra i primi, l’importanza del poeta serbo: in Tradurre poesia (Mondadori, 1967) raccoglie alcune liriche di Vasko Popa, insieme ad altri autori oggi negletti – Rui Nogar, Llazar Siliqi, Hagiar, Abdullah Goran – in un’opera, così recita la bandella, “avventurosamente ricercata”. Ecco, forse è proprio questo senso dell’avventura – cioè, della ricerca, pur non ricercata – a mancare all’attuale editoria. Forse, più semplicemente, manca il buon senso e il buon gusto; mancano gli adatti ramponi. Un tempo, i poeti autenticamente europei, dell’Europa ‘di mezzo’ e dei Balcani, erano letti, pesati, al vaglio di una originalità patriarca, di pianure abnormi e frugali crudeltà. Oggi ci facciamo dettare l’immaginario dai colti atlantisti, ignifughi all’ignoto.
***
La morte di Stargazer
Doveva morire, dicono
le stelle erano a lui vicine
più degli esseri umani
Lo hanno divorato le formiche, dicono
pensava che le stelle germogliassero in formiche
e le formiche in stelle
per questo riempì la sua casa di formiche
I suoi paradisiaci amori
gli sono costati la vita, dicono
e c’è quella ridicola chiacchiera
su un pugnale con impronte umane
Dicono che abbia trovato se stesso
fuori da questo mondo, letteralmente:
cercava girasoli dove le strada
del cuore incontra quella della stella
Doveva morire – dicono
*
Orfana Assenza
Non avevi un vero padre
il giorno in cui hai visto il mondo
dentro di te tua madre non era in casa
che tu sia nato è stato un errore
Creato come una gora vuota
odori di assenza
ti sei partorita da sola
Giri con la tua vita in fiamme
vi rompete la testa a vicenda
tuffandovi nelle vostre bocche
per rinnovare l’antico errore
Inginocchiati nuda se puoi
fino all’ultima lettera dell’alfabeto
e segui dove portano le tracce
Mi sento come un orfano
che stanno portando
verso una presenza sconosciuta
*
La lumaca stellare
Strisci dopo la pioggia
acquazzone di stelle
Ti hanno costruito una casa
con le loro ossa
e tu li trascini su un velo
Il tempo zampetta dietro di te
per toccarti e investirti
sentilo con le tue corna
Strisci su una guancia enorme
che non vedrai mai
diretto verso il vomere del vuoto
In sogno, piroetti sulla linea della vita
nel palmo della mia mano, prima
che sia troppo tardi
Lasciami come lascito
il tuo miracoloso velo d’argento
*
La scatolina
Alla scatolina spuntano i dentini
e diventa più grande
un poco più larga e vuota
e tutto il resto
La scatolina continua a crescere
l’armadio in cui si trovava
ora è dentro di lei
Diventerà sempre più grande, più grande
ora ha inghiottito la stanza
poi la casa e la città e la terra
e il mondo in cui si trovava
La scatolina ricorda la sua infanzia
e desidera tanto
ritornare scatolina
Ora nella scatolina
c’è un mondo interno in miniatura
puoi metterlo in tasca con facilità
allora prendilo, rubalo
Prenditi cura di quella scatolina
*
Nel villaggio dei miei antenati
Qualcuno mi abbraccia
qualcuno mi fissa con occhi da lupo
qualcuno si toglie il cappello
perché possa vederlo meglio
Tutti mi chiedono
se ricordo perché sono imparentato con loro
Vecchi sconosciuti e donne
nomi appropriati
nella mia memoria
Chiedo a uno di loro
dimmelo per amor di Dio
Giorgio il Lupo è ancora vivo
Sono io risponde
con voce di aldilà
Gli tocco la guancia con la mano
e lo imploro con gli occhi di dirmi
se anche io sono ancora vivo
*Traduzioni realizzate dalla versione lirica del poeta Charles Simic
*
Nell’oblio
Dalle tenebre lontane
la piana allunga la lingua
piana inarrestabile
incidenti versati
parole sparse appassite
visi livellati
qua e là
manciate di fumo
sospiri senza remi
pensieri senz’ali
sguardi senza focolare
qua e là
fiori di nebbia
ombre senza sella
scavano appena
la cenere calda del riso
Traduzione di Joyce Lussu