03 Agosto 2023

Il primo amore non si scorda mai: Vasco Pratolini, uno sconfitto di genio

Quella per Vasco Pratolini (1913-1991) è stata una delle mie prime cotte letterarie, nata senza sapere bene perché, irrazionale e assoluta, come si conviene a ogni cotta degna di questo nome presa negli anni dell’adolescenza. Ero al liceo e trovai i suoi romanzi nella libreria di mio padre, editi nella vecchia collana Mondadori dei Narratori Italiani. Non ricordo neanche quale fu il primo che lessi, fatto sta che mi prese subito e divorai quasi tutta la sua produzione. Accennai a questa passione con qualche compagno di scuola che mi guardò come un matto e il professore di lettere a cui ne parlai casualmente mi condì via con un sorrisetto e un commento del tipo «Ah, sì, Pratolini, uno scrittore delle piccole cose e della piccola gente». Offesissimo, tornai alle mie letture sfrenate e solitarie. A quell’età niente è più doloroso del vedere irriso l’oggetto del nostro folle amore, sia esso una ragazza, un campione dello sport, o uno scrittore.

Con il passare degli anni ho scoperto altri autori senza alcun dubbio molto più grandi di Pratolini e soprattutto più vicini alla mia sensibilità, ma ho conservato una fedeltà di fondo a questa mia passione giovanile.

L’opera di Pratolini può essere divisa in due parti: la prima comprende romanzi come Il quartiere, Cronaca familiare, Le ragazze di San Frediano, Cronache di poveri amanti, costruiti sul filo della memoria e della rievocazione familiare; la seconda è quella che va a formare la trilogia Una storia italiana, composta dai romanzi Metello, Lo scialo e Allegoria e derisione, oltre alla Costanza della ragion” che fa storia a sé. A partire dagli anni Quaranta fu uno scrittore di buon successo, anche grazie alla trasposizione cinematografica di diverse sue opere. Poi, con la conclusione della trilogia a metà degli anni Sessanta, la sua vena si esaurì e negli ultimi 25 anni di vita si dedicò alla riscrittura di alcuni suoi vecchi libri senza pubblicare più niente di nuovo e significativo. Un finale malinconico per un uomo che viveva la scrittura in modo viscerale e che della letteratura aveva fatto una ragione di vita. Non a caso in un’intervista aveva paragonato la letteratura a «fare degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo».Oggi è  solo uno dei tanti dimenticati.

Le critiche che gli sono state rivolte, un certo populismo, una tendenza al bozzetto, un realismo di maniera sono senz’altro giustificate e ne mettono in evidenza i limiti, ma per me Pratolini resta un autore con dei meriti. Uno dei rari casi nella asfittica narrativa italiana di scrittore che pensa in grande, anche al di là dei suoi mezzi, ma se ha osato troppo non lo ha fatto per presunzione ma per generosità.

Lo scialo, il suo romanzo che amo di più, ricostruisce gli anni tra il 1910 e il 1930 attraverso le vicende della piccola e media borghesia della sua Firenze e del graduale scivolamento di questa classe da un generico socialismo al compromesso con il fascismo. Un libro che è anche una lezione di storia e che andrebbe fatto leggere nelle scuole per fare capire come si è affermata la dittatura, giorno dopo giorno, nella vita quotidiana degli italiani, fino ad arrivare a quelli che Renzo De Felice più tardi avrebbe definito “gli anni del consenso”.

Lo scialo è anche la prova di quel pensare in grande di Pratolini a cui ho accennato in precedenza. Un romanzo di più di 1300 pagine, smisurato e minuzioso al tempo stesso, con una folla di personaggi, che comprende fluviali monologhi interiori, scene di massa, delitti, scene erotiche, avventure e coincidenze romanzesche. Un libro, nessuno mi toglierà mai dalla testa, concepito per confrontarsi con i grandi della letteratura: Dickens, Balzac, Joyce, Thomas Mann. Una sfida impari, nella quale, lo dico con una stretta al cuore, Pratolini, e con lui la narrativa italiana, esce sconfitto, ma che fa di lui uno scrittore vero e degno ancora oggi di essere letto.

Silvano Calzini

Gruppo MAGOG