17 Gennaio 2022

“E l’ultimo denudamento è tremendo”. Su Varlam Šalamov

Soprattutto, gli occhi. Intimidivano. Come di uno alla centesima rinascita, che non centellina i dettagli del dolore. Era forte, il viso simile a una tagliola, nobilitato dalle rughe, lo chiamavano “il vichingo”, rimarcando: “è uno molto brusco”. A chi andava da lui “come da un nuovo profeta” diceva: “si deve vivere così com’è scritto nei dieci comandamenti, non occorre altro”. Alla grande legge aggiungeva un codice: “non insegnare a vivere agli altri, ognuno ha la sua verità”.

Varlam Šalamov viene arrestato la prima volta nel 1929, poco più che ventenne. Gli danno tre anni perché ha divulgato la lettera in cui Lenin critica l’avidità dei lacchè sovietici, l’operato di Stalin in particolare. Libero nel ’32, Šalamov è ormai nella lista letale dei nemici di Stato: nel 1937 è arrestato “per attività controrivoluzionaria” e inviato nei lager della Kolyma; nel 1943 gli prolungano la pena. Torna a Mosca nel 1953: è un uomo lacerato, disossato fin nell’intimo della memoria. Pochi anni dopo, lascerà la moglie, Galina; nella capitale, appena uscito di prigione, va a trovare Boris Pasternak, il maestro: “Io ero andato da lui per imparare a vivere, non per imparare a scrivere… Io avevo quarantasei anni. Venti dei quali trascorsi in prigione e al confino”. Con ostinazione amanuense, su alcuni quaderni scolastici, Varlam Šalamov scrive I racconti della Kolyma, opera granitica e tentacolare, un dardo di cristallo nel cuore nero del secolo, di stordente perfezione. Quell’uomo, che scrive intagliando il sangue, fino al punto insopportabile – “Proprio la sofferenza dell’uomo è l’oggetto fondamentale dell’arte, è l’essenza dell’arte, il suo tema ineluttabile”, scrive a Pasternak, nel 1954 – è il Čechov dei Gulag. Perfino Aleksandr Solzenicyn si fece di lato di fronte a lui: “L’esperienza di Šalamov nei lager è stata più amara e più lunga della mia… a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager”. Eppure, mentre Solzenicyn era l’eroe dell’esilio, ornato col Nobel, il guru anticomunista, Šalamov, pronto a un destino più cupo, a incorporare tutte le contraddizioni di quel tempo atroce, restò in Russia, come un monaco nero, un emblema. Naturalmente, i racconti gli furono rifiutati; passarono nelle riviste dell’emigrazione russa. Nel 1972 i servi di regime impongono allo scrittore di abiurare quanto ha scritto. “La problematica dei Racconti della Kolyma è staccata dalla vita”, scrive lui, in una lettera alla “Literaturnaja Gazeta”; e la vita lo relega nel ghiaccio, prima in una casa di cura, dal 1979, poi in un manicomio, dove muore, nel 1982.

“Per un racconto ho bisogno di silenzio assoluto, di una solitudine assoluta… Ogni singola frase è stata preventivamente urlata in una stanza vuota: quando scrivo, parlo sempre da solo. Grido, minaccio, piango. E le mie lacrime scorrono ininterrotte. Solo alla fine, terminando il racconto o parte di esso, asciugo le lacrime”: scrivere lo tenne in vita, togliendogli la vita. Eppure, Šalamov fu, ininterrottamente, poeta. “Mi preparavo a diventare Shakespeare. Il lager ha spezzato tutto”, dice alla confidente, Irene P. Sirotinskaja (nel regesto di Ricordi incorporato all’edizione Einaudi dei Racconti di Kolyma). “Leggo Shakespeare in una casa di vecchi credenti./… Leggo i versi a cantilena, come preghiere”, salmeggia Šalamov nei Quaderni della Kolyma, le poesie scritte tra il 1937 e il 1956, sul crinale dell’orrore, con nitore d’acciaio, pubblicate da Giometti & Antonello. Dello Shakespeare russo ci resta lo scapolare, lo spazientito calco, l’eco bianca. “Di classica semplicità: nulla di superfluo, nulla d’inutile. E profondità di pensiero”: così Gario Zappi – già stupefacente traduttore di Osip Mandel’stam e di Arsenij Tarkovskij – descrive la poesia di Šalamov nei “frammenti per una prefazione”.

In un testo pubblicato da Theoria nel 1992, Nel lager non ci sono colpevoli, appare la poetica a brandelli di Šalamov: “La poesia è incomparabilmente più complessa della sociologia, più complessa del ‘sì’ o del ‘no’ dell’umanità progressista… In poesia non esiste il progresso… La poesia è intraducibile… La poesia è inafferrabile…”. Per Šalamov è la poesia – verbo che disfa l’utile, disonora i poteri, disarma la merce – l’antidoto che capovolge la storia, la fuga nell’Est dell’estasi. Un carisma preistorico regge il suo canto (“Sono come quei fossili pietrificati/ che riaffiorano per caso/ per svelare intatti al mondo/ un mistero geologico”), sopra il superfluo, il catrame dell’era: “Dalle oscure foreste, dai paludosi pantani/ si levano carcasse di paradiso”.

Il più intenso tra i Racconti della Kolyma, Cherry-Brandy, in cui, nell’aura dell’incipit (“Il poeta stava morendo”), è adombrata la storia, tragica, di Mandel’stam, contiene una rivelazione in vitro. “Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia”. Che sortilegio micidiale, inaccettabile; che bava d’ambra. Della poesia conta la lebbra improvvisa, la slabbratura, la scia d’argento, che svanisce. Il poeta, architetto di vuoti, esiste per effrazione di luce, per sparire. “Tutto viene a nudo”, scrive Šalamov a Pasternak, dicendo dei gulag. “E l’ultimo denudamento è tremendo”. Nelle poesie, Šalamov è nudo, scabro. Bellissimo. Benvenuti nel tremendo.

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