Dopo l’alluvione, è spuntato un libro nella mia libreria, come una pianta venuta su spontaneamente, una pianta di cui non sapevo nulla. In realtà, avevo acquistato questo libro in una libreria di Ravenna, lo avevo riposto in attesa di leggerlo e poi lo avevo dimenticato. Quasi per una profezia, il libro si intitolava Il villaggio sommerso.
Questo romanzo, scritto da un autore sovietico dal nome altisonante di Valentin Rasputin e pubblicato per la prima volta nel 1976, narra di un paesino dal significativo nome Matëra, e di come stia per essere spazzato via dal progresso.
«Il villaggio aveva la sua chiesetta, come si conviene, su un’altura aperta, ben visibile da lontano. Al tempo dei kolchoz, la chiesa era stata adattata a deposito. È vero che le messe già da prima non vi si celebravano più, per la mancanza di un prete, ma la croce in cima era rimasta, e al mattino le vecchie vi si inchinavano. Poi fu abbattuta anche la croce».
Il villaggio di Matëra cresce su di un’isola del fiume Angara, nella Russia siberiana meridionale, e per generazioni ha trascorso una placida esistenza. Almeno fino a quando non si decise di costruire una diga con relativa centrale idroelettrica, provocando l’innalzamento delle acque e l’allagamento di vari centri abitati. La storia, di fantasia ma tutt’altro che fantasiosa, prende il via qui, quando ormai è già tutto deciso: presto Matëra sarebbe scomparsa dalle carte geografiche, inghiottita dal fiume Angara, e tutti i suoi abitanti trasferiti a forza in un nuovo villaggio costruito appositamente per loro e “realizzato con così scarso senso di umanità che cascavano le braccia”.
La storia si presta a facili interpretazioni: la scomparsa del mondo contadino, il progresso che travolge ogni cosa, il potere che piega la natura al suo volere; la contrapposizione fra l’uomo/contadino che intrattiene un dialogo privilegiato con la natura, e l’uomo/cittadino che non sa fare nulla, non è buono a nulla. Ma sono proprio questi temi che fanno di Valentin Rasputin un autore sovietico particolare, inserendosi fra coloro che riconoscevano nella tradizione contadina la vera anima russa, e capace di coglierne le incongruenze e i paradossi.
Prima ancora che i vivi, a subire lo sfratto sono i morti. Il romanzo incomincia proprio con questa grottesca profanazione, con le tombe scoperchiate, le lapidi rotte e le croci divelte. Tombe che aspettavano il ritorno di Cristo vengono ora aperte da rozzi operai; questi incaricati non stanno solo rimuovendo i defunti, ma stanno estirpando le radici della gente. Perché cos’altro sono i cari sepolti, se non le radici di chi è ancora in vita? In nome del bene comune, di un orizzonte più luminoso, di una nazione che sta rapidamente cambiando e corre disperata per non mangiare la polvere dei secoli, si sta lentamente perfezionando l’uomo massificato; e se da un lato Rasputin contrappone alle malinconiche vecchine, attaccate alle loro izbe, una generazione di giovani che non crede in nulla e non vede l’ora di lasciare quel borgo ammuffito, dall’altro inserisce personaggi di grande profondità, come Pavel, il quale sa che lo sfruttamento idrico dell’Angara è un bene per il suo paese, sa che i problemi di una manciata di famiglie sono nulla in confronto al benessere di una nazione; ma nonostante tutto non riesce a staccarsi, almeno mentalmente, dalla sua cara Matëra.
Valentin Rasputin materializza sulla pagina non solo lo scontro generazionale, non solo lo scontro fra due Russie, quella contadina, arcaica e credente, contro quella sovietica e moderna; ma anche il conflitto interiore dell’uomo che sa di dover cambiare, ma allo stesso tempo non vuole.
«La vita è diventata più facile. Arrivi dal lavoro, ti lavi, e puoi startene sdraiato, in ozio senza nessuna preoccupazione, nessuna pena… Solo che con queste facilitazioni arrivi a non sentire più il tuo peso, diventi senza consistenza e solidità, come se un qualsiasi cattivo vento potesse prenderti e strapparti via. Una disgustosa incertezza sotto sotto ti consuma: sei tu o non sei tu? E se sei tu, come hai fatto a capitare qui?»
Queste sono le preoccupazioni di Pavel. Perché sua madre Dar’ja lo ripete spesso:
«Non c’è niente al mondo di più ingiusto di quando qualcosa, albero o uomo che sia, vive fino a diventare inutile, fino ad essere solo un peso».
E lo ha visto con i suoi occhi, Pavel, quanto questo avere uno scopo possa portare un uomo a vivere anziché morire. Lo ha visto sulla pelle del nonno Maksim, che in occasione di una nuova, e forse ultima fienagione, si alza dal letto di morte per affilare rastrelli e forche, e poi canta e impartisce ordini.
L’ideale di vita sovietica, in realtà, puntava proprio a questo, a rendere tutti di una qualche utilità, inserendo ciascun figlio nella grande ruota che fa girare il paese. Ma è la totale spersonalizzazione ad aver reso quegli stessi figli dei semplici bulloni del grande meccanismo, e per far ciò ha dovuto tagliar loro le radici, sottrargli l’anima. E a guardare la vita di oggi, lontana dei furori sovietici, non viene spesso da domandarsi la stessa cosa? Sei tu o non sei tu? E se sei tu, come sei capitato qui? Perché forse, che siamo in pieno consumismo o agli albori della rivoluzione proletaria, la modernità, intesa come tecnica, ha rotto gli argini e sommerso ogni cosa. Ma soprattutto, ha sommerso la capacità degli uomini di sentirsi davvero parte del mondo.
Valerio Ragazzini