“Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. (…) Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti”.
*
Se non ci fosse stata lei, lei e la sua tenacia caparbietà tipica delle donne delle montagne venete, l’Italia si sarebbe persa un capolavoro straordinario. Lode e gloria quindi a Tina Merlin, dritta come un larice e legnosa come le radici che lo spingono verso il cielo: si era messa in testa, con ostinazione, che “quella storia” doveva essere trasmessa e fatta conoscere.
*
Quattro lustri per lustrare il dramma: più o meno 20 anni di porte chiuse in faccia, di “le faremo sapere” caduti nel vuoto avrebbero piegato le gambe anche a un mulo ma non a lei: sapeva – da vera giornalista – che attorno e dentro “a quella cosa lì” c’era un racconto e un fiume di parole acquose in grado di inondare la letteratura italiana.
*
“Non sono né più brava né più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo certo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la SADE. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita”.
13 ottobre 1963, l’Unità
*
C’era una storia accaduta, drammatica, “caduta” a valle. E una risalita, verticale, per cercare le giuste informazioni. Lei, etichettata come “non gradita” in quanto corrispondente del giornale comunista L’Unità, ha tirato fuori le unghie e ha fatto affidamento sulle sue gambe, esperte di scalate. Mario Fabbri, giudice istruttore di Belluno (e quindi conterraneo) che aveva perduto alcuni familiari durante la Guerra, capì chi aveva di fronte e pretese che anche lei, come gli altri giornalisti del Gazzettino e del Resto del Carlino, potesse “scartabellare” i documenti necessari per ricostruire gli eventi. Ci lavorò con costanza e pazienza, quasi come una missione. Inascoltata dalle istituzioni, nel 1959 il conte Vittorio Cini, ultimo presidente della SADE, fece denunciare la giornalista dai carabinieri di Erto per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” tramite i suoi articoli, ma lei fu processata e assolta il 30 novembre 1960 dal giudice Angelo Salvini del tribunale di Milano perché il fatto non costituiva reato.
*
Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont ci ha impiegato poco meno di un quarto di secolo per trovare un editore. Scritto poco dopo la tragedia, solamente nel 1983 esce per “La Pietra” la verità sulla costruzione della diga del Vajont. Dando voce alle denunce degli abitanti di Erto e Casso, la giornalista riuscì a denunciare i pericoli legati alla diga.
*
Il libro racconta la storia delle piccole comunità montane della valle: donne e uomini semplici, laboriosi, pragmatici, abituati a fare e non a parlare o a lamentarsi. Uomini e donne con la schiena curva, piegata dal tempo e dalla necessità di ricavare qualcosa dalle poche, aspre e aride risorse che la montagna offre a chi la vive. Storia di resistenza, di spostamenti, di nuovi, piccoli mercatini dove portare e vendere bastoni, cornici, statuine, piatti, posate in legno. A turbare la quiete, nel 1956, la Società Adriatica Di Elettricità (SADE): ha bisogno di energia elettrica per l’industria nazionale e ha individuato nella zona di Longarone l’area ideale. Il progetto, dal punto di vista, non faceva una piega. Il luogo scelto però non era adatto.
*
I montanari non ci stanno e protestano per la difesa dei loro diritti e della loro quiete. La SADE però non ci vuole sentire: ha dalla sua le concessioni governative, la politica e i mezzi di informazione. E lì dove nascono i focolai di resistenza, interviene con la forza. Nel febbraio del 1960, in fretta e furia (e senza aver ottenuto la concessione), viene riempito l’invaso. La zona sotto il monte Toc inizia a mostrare segni di cedimento ma i tecnici esperti tirano dritto: vengono falsificati i documenti, cancellati i rapporti inviati alle autorità con i segnali più inquietanti, come ad esempio le continue scosse sismiche. Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 una frana si stacca dal Toc e finisce nel lago. Il giorno dopo, di fronte al mare di fango, giornalisti come Indro Montanelli e Dino Buzzati grideranno alla rivolta della natura, alla perfezione dell’opera tecnicamente ineccepibile, tacciando come sciacalli tutti coloro che osano parlare di responsabilità dell’uomo.
*
“Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico SADE. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava o avrebbe ricavato enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era – ed è ancora – come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio”.
Sulla pelle viva, 1983
*
Marco Paolini si appassiona alla storia scritta e raccontata da Tina Merlin e a metà degli anni Novanta porta in scena Il racconto del Vajont: due ore e mezza di orazione “civile” che gli permettono di vincere nel 1995 il Premio Ubu per il teatro politico e nel 1996 il Premio Idi per la migliore novità italiana.
*
“Ci sono incontri che ti cambiano la vita. Persone straordinarie che ti comunicano qualcosa che entra a far parte di te. A volte sono stimoli, a volte dubbi, a volte idee. Emozioni, storie, passioni. A volte sono un pugno nello stomaco che ti toglie il fiato, che ti lascia dentro una rabbia e un senso d’ingiustizia subito intollerabile, ingiusta. Questo, per me, è stata Tina Merlin. Non l’ho mai conosciuta di persona, ma l’incontro c’è stato ugualmente attraverso le pagine di questo libro. Le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta. La mia copia è piena di sottolineature. La copertina è consumata dai viaggi. (…) Non credo esista un cronista o uno storico neutrale. Esiste un lavoro ben fatto di inchiesta, di ricerca delle fonti, di ascolto dei punti di vista diversi, ed esiste un lavoro più comodo di chi si accontenta di scrivere belle pagine ad effetto”.
*
Tina Merlin se ne è andata poco più di 30 anni fa, nel 1991, senza riuscire a vedere lo spettacolo. Con ogni probabilità, le sarebbe piaciuto.
Alessandro Carli