“…e tutti che guardano fisso, attoniti d’immenso”: la poesia di Mark Strand, uno degli ultimi maestri. Diceva che la lirica trae ispirazione dalla morte e rende bellissimo il dolore
Mark Strand, nato in Canada nel 1934, è tra i grandi poeti occidentali del contemporaneo. Ci manca da cinque anni – è morto nel novembre del 2014 – è stato onorato con tutti i premi possibili, per ciò che conta, ha indossato il ruolo di ‘Poet Laureate’ americano nel 1990. In Italia è uno di quelli – evviva – che è stato tradotto per bene, forse per quel dettato terso, la tensione riconoscibile. Oltre a singole raccolte (Uomo e cammello, Quasi invisibile, per Mondadori, L’inizio di una sedia, per Donzelli, ad esempio) è pubblico il suo studio su Edward Hopper (sempre Donzelli). Ora, miracolo editoriale, Tutte le poesie di Strand sono raccolte in un tomo grosso così, per Mondadori, per la cura di Damiano Abeni e Moira Egan. Più di tutto, amo il poema Dark Harbor, di cui pubblico un paio di capitoli, orientati in terzine. Se siete tentati di speculare intorno ai rapporti tra Strand e Dante, lui vi risponde così: “D sta per Dante, che non mi ha influenzato, il che è un gran peccato. D’altro canto, non saprei quale potrebbe essere l’influenza di Dante, e riterrei alquanto strano leggere da qualche parte che uno dei miei contemporanei sia stato influenzato da lui. Caspita, fantastico, mi verrebbe da pensare. Ma è death, la morte, di gran lunga più accessibile – che sia qui o appena oltre la curva –, ad avermi sempre influenzato. Quel che voglio dire è che la morte è comune. Se ti stai divertendo e concepisci la possibilità che il divertimento possa finire, allora ti stai misurando con la morte, anche se in modo leggero e irrilevante. Ma il punto a cui voglio arrivare è un altro: la morte è il centro focale della poesia lirica. La poesia lirica ci rammenta che viviamo nel tempo. Ci dice che siamo mortali. Celebra o delinea stati d’animo, idee, eventi solo nel loro esistere effimero. Perché quale significato potrebbe mai avere alcunché al di fuori del tempo? Anche quando la poesia celebra qualcosa di gioioso, porta con sé la notizia che quella particolare gioia è finita. È un memoriale protratto, un discorso di commiato a ciascun preciso momento sulla terra. Ma la sua potenza sta nella discrepanza rispetto a ciò che celebra. Perché non è soltanto vero che ci doliamo del trascorrere del tempo, ma anche che siamo in qualche modo disgiunti dal peso del tempo, e quando leggiamo poesie, durante quei brevi attimi di raccoglimento, il pensiero della morte pare indolore, perfino bello”. Questa idea della poesia legata alla bellezza della morte, in un tempo che non è grave, mi sembra magnifica. Strand, insieme a poeti come il suo amico Iosif Brodskij, o John Ashbery o Charles Wright o Thom Gunn o Charles Simic o Robert Pinsky, per dire, fa parte di quella generazione che funge da cerniera con la grande poesia del Novecento, che ha stretto la mano ai maestri, quelli veri, i titani. Che vive degli ultimi bagliori di quell’aura. Ora, poetiamo al fuoco del deserto, per i millenni interstellari. (d.b.)
***
I
Nella notte senza fine, nell’oscurità che ci impregna,
indosso un abito bianco che riluce
tra le foglie cadenti, nere, tra le
lune dei lampioni coperte di insetti.
Cammino tra alberi smeraldo
nella notte senza fine. Attraverso
la strada e scompaio dietro l’angolo.
Riluco nell’attraversare il parco verso
la stazione dove aspettano gli altri.
Fra poco percorreremo l’oscurità incommensurabile
e muta, dove fuochi ci guidano sul terreno amaro
della notte senza fine. Indosso
un abito che fa impallidire la luna, che è puro
splendore quando arrivo alla stazione dove gli altri
sussurrano, dicono che la luna
non è un ostacolo superiore ad altri,
che, se qualcuno soffrisse, si potrebbero ottenere ali
in cambio di una canzone o di braccia, che le norme
della terra valgono ancora per chi è in partenza,
che è assai meglio esser pronti, perché la cenere del corpo
non vale nulla e più in là di tanto non arriva.
*
II
Ti scrivo da un posto dove non sei mai stata,
dove i treni non passano, gli aerei
non atterrano, un luogo a occidente,
dove spesse siepi di neve circondano ogni casa,
dove il vento ulula al volto vuoto della luna,
dove la gente è semplice, e le mode,
quando arrivano, arrivano tardi e sono viste
come forme di oppressione, fonti di scontento.
Questo è un posto che un po’ si accende alle 7 la sera,
poi si spegne, e scivola nella camera ardente
delle stelle, e tutti sognano di librarsi
come angeli in vesti fragranti,
di venire sollevati dalle varie incombenze
e godere dei piaceri a disposizione di chi li chiede –
giorni come pagine strappate a un album di famiglia,
rimpatriate senza fine, il coro celestiale intorno alla grigliata
che si modula al tono dell’occasione,
e tutti che guardano fisso, attoniti d’immenso.
Mark Strand
*la poesia è tratta da: Mark Strand, “Tutte le poesie”, Mondadori 2019, a cura di Damiano Abeni e Moira Egan