L’autenticità di un uomo si scorge dai dettagli. Portata a termine l’intervista, non semplice – abbiamo toccato il cuore scoperto della Storia recente – chiedo la canonica fotografia. “Allego un paio di pochissime fotografie che mi riguardano, spero vadano bene perché non ne ho altre: detesto apparire”. Piero Verni è tra i grandi conoscitori della cultura tibetana: per capire cosa accade davvero in quel lato di mondo, al di là della propaganda cinese – che piega le ginocchia dei governanti europei e ne piaga la moralità – bisogna ascoltarlo. Vent’anni fa, con Jaca Book, Verni pubblica la “biografia autorizzata” del Dalai Lama: la massima autorità del buddhismo tibetano, “nel corso di un trentennio, gli ha concesso oltre 50 interviste esclusive e conversazioni private”. In particolare, insieme al fotografo Gianpiero Mattolin, Verni ha ideato il progetto “L’Eredità del Tibet – The Heritage of Tibet” per salvaguardare la conoscenza di un mondo in frantumi. La cosiddetta Rivoluzione Culturale ha sradicato la cultura tibetana, tacitando monaci e annientando monasteri; l’attuale governo pur professandosi laico – e di matrice marxista-leninista – si arroga il diritto di redigere la lista degli autentici ‘Buddha viventi’, i reincarnati. Come se la politica potesse dirimere questioni relative alla reincarnazione, alla religione. Il ‘problema Tibet’, in effetti, è un’ottima cartina per misurare l’opportunismo dei governi democratici del resto del globo. Verni, dopo l’esperienza del Sessantotto – su cui lo ho stimolato – e la redazione in Re Nudo, rivista cult della controinformazione, ha scoperto il Tibet, ne è stato illuminato. Nel 1988 è tra i fondatori dell’Associazione Italia-Tibet, di cui è stato presidente per 14 anni. Oggi vive tra Italia e Bretagna, un tanto disgustato dalla situazione politica europea attuale, setacciando la luce, dove sgorga. (d.b.)
Quando è andato in Tibet la prima volta e le è venuto il desiderio di studiare quel paese della mistica e del mistero, sondato da esploratori come Giuseppe Tucci e Fosco Maraini?
In realtà, sono andato in Tibet per la prima e unica volta nel luglio e agosto del 1987 ma era già da almeno una decina di anni che mi interessavo alla cultura e alla religiosità tibetane… anzi, ad essere precisi da una quindicina se partiamo dalla primavera del 1972 quando, nel corso del mio primo viaggio in India, mi ritrovai quasi per caso a Dharamsala dove vive il Dalai Lama con una piccola comunità di profughi tibetani. All’epoca erano poco meno di un migliaio i rifugiati che vivevano a Dhasa, oggi credo superino i cinquemila.
Immagino che la Dharamsala di oggi sia molto diversa da quella di allora…
Irriconoscibile. Mentre all’epoca era un piccolo e delicato frammento di Tibet proiettato dalle drammatiche vicende della storia al di là della catena himalayana, oggi è uno sgraziato “villaggione” divenuto rinomata meta turistica per la nuova classe media indiana che, come dire, non è sempre attentissima al rispetto per la natura e per l’ambiente. Quindi troviamo file di alberghi senza soluzione di continuità dove prima c’erano stradine e sentieri da cui si godeva un panorama eccezionale della splendida valle di Kangra… ma lasciando da parte queste recriminazioni da attempato nostalgico dei “bei tempi andati” e tornando al Tibet, le mie prime esperienze con il mondo della cultura tibetana le ho appunto fatte sia negli insediamenti dei profughi in India e Nepal, sia nell’ampio arco della regione himalayana abitata da popoli di tradizione buddhista e da realtà che sono una sorta di replica di quelle tibetane.
In che senso?
Nel senso che sono aree che hanno sempre gravitato nell’orbita tibetana. Sto parlando, per intenderci, del regno del Bhutan, degli stati indiani del Sikkim e del Arunachal Pradesh, delle regioni del Ladakh, di quella zona dell’India nord occidentale che comprende il Lahul, lo Spiti e il Kinnaur… del Dolpo e del Mustang in Nepal e altre minori. È tutto un mondo che un tempo era considerato (forse con la sola eccezione del Bhutan) periferico rispetto al Tibet propriamente detto ma che oggi è divenuto un vero tesoro per quanti vogliono conoscere la cultura tibeto-himalayana.
Perché?
Per il semplice fatto che a causa dell’invasione cinese l’autentica civiltà tibetana in Tibet è stata annichilita. Alcuni dati: oltre un milione di tibetani morti a causa diretta o indiretta dell’occupazione. Al termine della Rivoluzione Culturale (1976), dell’intero patrimonio artistico tibetano rimanevano intatti solo il Potala di Lhasa e un pugno di monasteri e monumenti di carattere religioso. Ancora oggi vi sono forti restrizioni all’insegnamento della lingua tibetana nelle scuole e nell’università. Nell’amministrazione vige l’uso esclusivo del mandarino così come in ogni aspetto della vita economica. La legislazione che riguarda i monasteri, è interamente nelle mani del Partito Comunista Cinese (PCC)… il che comporta un controllo capillare del PCC sulla vita religiosa. Controllo che assume valenze grottesche quando il governo (che in quanto espressione di un Partito Comunista si tenderebbe a presumere laico), si arroga il diritto di decidere quali incarnazioni (tulku) dei lama possono essere considerate valide. Quindi capirà che, nonostante gli eroici sforzi dei tibetani per riprendere in mano la propria autonomia culturale, sforzi che cercano di sfruttare ogni minimo spazio di libertà che una situazione del genere lascia loro, il quadro è tutt’altro che roseo. Al contrario, nei paesi e nelle aree che ho menzionato, la tradizione tibeto-himalayana non ha conosciuto sincopi. Continua così da secoli, con il suo splendido patrimonio artistico intatto. Pensi che nella valle dello Spiti (India nord-occidentale) c’è quello che oggi, dopo le distruzioni cinesi in Tibet, è forse il più antico monastero tibetano del mondo (Tabo: 966 d. C.). E poi, se si vuole incontrare la cultura religiosa e laica del Paese delle Nevi lo si deve fare negli insediamenti che gli oltre centomila profughi hanno costruito in Nepal e India dove avevano seguito il Dalai Lama. È lì che si sono preservati i caratteri essenziali della koiné tibetana… ed è lì che la Civiltà del Tetto del Mondo sta vincendo una impossibile scommessa con la Storia. E mi lasci ribadire che in questo, il contributo del Dalai Lama è stato fondamentale.
Ecco, a proposito di Dalai Lama, lei ne ha scritto la biografia ‘ufficiale’: che personalità esprime? Che messaggio propone?
Per la verità io ho scritto una biografia “autorizzata” del Dalai Lama che è cosa diversa da “ufficiale”. Mi permetta comunque di rispondere prima alla seconda parte della sua domanda… che messaggio propone il Dalai Lama. Bella questione. Potrei cavarmela citandolo: “Il mio messaggio è la gentilezza”, ma non sarebbe corretto. In realtà il messaggio del Dalai Lama è, pur nella sua chiarezza e semplicità, ben più articolato. Lui in genere lo sintetizza in tre punti. Il primo: promuovere virtù quali la compassione, il perdono, la tolleranza, la soddisfazione e l’autodisciplina. Il secondo: lavorare per l’armonia e la comprensione reciproca tra le principali tradizioni religiose del mondo. Il terzo: adoperarsi per la preservazione della cultura buddista del Tibet, per la salvaguardia dei diritti del popolo tibetano e la protezione dell’ambiente naturale del Tetto del Mondo. Per quanto mi riguarda, l’aspetto del pensiero del Dalai Lama che da sempre più mi interessa è la sua capacità di essere fedele alle tradizioni senza farle divenire una sorta di prigione. Mi affascina il suo modo creativo di intendere il legame con le radici di un popolo, quale condizione necessaria per comprendere l’oggi e immaginare il domani. E poi la sua saggezza visionaria che però non dimentica mai la concretezza del buon senso. Infine la grande umanità e calore umano che il Dalai Lama esprime.
Negli scorsi anni ci è capitato di assistere spesso alle visite del Dalai Lama, con congrua folla. Mi pare che con il consolidarsi dei legami tra Italia e Cina la presenza del capo spirituale tibetano non sia così bene accetta: sbaglio?
No, non sbaglia. Anche se devo dire che la presenza del Dalai Lama in Italia è sempre stata osteggiata da Pechino anche quando il leader tibetano all’estero era molto meno popolare di oggi. I cinesi fanno sempre forti pressioni affinché al Dalai Lama o sia negato l’ingresso in una nazione o, in subordine, che gli venga impedito ogni contatto con personalità pubbliche e con rappresentanti politici. A mio avviso è un atteggiamento miope perché alla fine finisce per dare ulteriore visibilità alla presenza del Dalai Lama. Un atteggiamento che spesso sfocia in episodi grotteschi.
Ad esempio?
Beh se ne potrebbero citare molti. Come quando, dopo un incontro informale alla Casa Bianca con il presidente Obama, il Dalai Lama venne fatto uscire da una porta di servizio tra cumuli di neve e bidoni della spazzatura. Oppure nel 2016, quando finalmente il Comune di Milano si decise a dare la cittadinanza onoraria al leader tibetano che però non gli venne consegnata dal sindaco, come è consuetudine, bensì da un semi sconosciuto assessore. Il “primo cittadino” Giuseppe Sala era invece andato ad accoglierlo, quasi clandestinamente e in assenza di fotografi e giornalisti, alle sette di mattina all’areoporto. Sono le miserie della “politique politicienne”.
Ci ha già parlato della situazione passata e attuale del Tibet. Quali previsioni fa per il futuro?
La situazione è veramente molto difficile. Sia pure in ottima e invidiabile salute, Kundun ha pur sempre compiuto il luglio scorso 83 anni. Quindi, purtroppo, il giorno in cui lascerà il presente corpo si avvicina. E, temo, non sarà un momento semplice per i tibetani. Dentro e fuori il Tibet. L’attuale Dalai Lama ha svolto un ruolo talmente cardinale nella drammatica tempesta in cui il Tibet si è trovato negli ultimi decenni, da renderlo insostituibile. La sua saggezza, il suo carisma, la sua intelligenza, la sua umanità… insomma gli innumerevoli pregi di cui è dotato, mancheranno moltissimo al popolo tibetano. Anche se, si deve ricordarlo, Kundun ha rinunciato ormai da diversi anni ad ogni carica politica, cominciando da quella di capo del governo in esilio. In ogni caso, il Dalai Lama non ha ancora deciso cosa succederà dopo la sua scomparsa. Se la tradizione del Dalai Lama continuerà inalterata. Se ci saranno modifiche. Se cesserà con lui. Se nominerà in vita un suo successore. Sono tutte variabili che peseranno molto sulle scelte che il popolo tibetano dovrà fare in un futuro, che speriamo non sia prossimo, ma che inesorabilmente prima o poi presenterà il conto. Ma a parte questo, la mia opinione è che l’unica possibilità per il Tibet di vedere un cambiamento positivo stia nella caduta del presente regime. Con al potere gente come Xi Jinping non esiste possibilità di effettivo dialogo. Quindi ritengo che i tibetani dovrebbero in qualche modo unirsi a tutti coloro che hanno un contenzioso aperto con Pechino. Contenzioso etnico, come nel caso degli uiguri e dei mongoli. Contenzioso politico e sociale come nel caso dei dissidenti cinesi, del disagio operaio, del movimento “degli ombrelli di Hong Kong”, ect. Poi c’è il caso di Taiwan, sempre più tentata di dichiarare ufficialmente la propria indipendenza (che esiste de facto da oltre mezzo secolo) e per questo sempre più minacciata di invasione da parte della Cina. Ritengo che se tutte queste forze insieme riuscissero a determinare la caduta del regime comunista e l’instaurazione di uno democratico, per tibetani, uiguri e mongoli sarà meno impossibile trattare della loro condizione. Al momento però, la strada mi appare molto in salita.
Su cosa si sta orientando la sua ricerca? Ricordo, ad esempio, un suo studio sui Tulku, i maestri che si reincarnano per aiutare gli uomini a ‘liberarsi’… ecco, cosa resta da scoprire in Italia del fascinoso Tibet, un Tibet, probabilmente, nella nostra mente imberbe (di noi italiani mediamente curiosi, intendo), filmico, ‘da cartolina’?
Insieme al mio amico e fotografo Giampietro Mattolin, da alcuni anni abbiamo dato vita al progetto “L’Eredità del Tibet-The Heritage of Tibet”, una iniziativa culturale che si propone di presentare gli aspetti più importanti della civiltà del Paese delle Nevi ad un pubblico occidentale. Fino ad oggi abbiamo pubblicato quattro libri e un documentario sulle danze rituali tibetane. Inoltre tre mostre fotografiche affiancano gli altri nostri prodotti. Personalmente in questi anni sono particolarmente interessato a studiare e approfondire la mia conoscenza della tradizione, così importante nella koiné tibetana, dei tulku… quei lama che decidono consapevolmente di tornare, rinascita dopo rinascita, su questo pianeta per aiutare tutti gli esseri senzienti con il potere della loro saggezza. Per altro, questo aspetto della cultura tibeto-himalayana è oggi particolarmente importane alla luce dell’uso che i cinesi hanno cominciato a fare di questa tradizione.
Un uso politico?
Esattamente. Hanno stabilito che l’unico ad essere autorizzato a riconoscere o meno la bontà di una nuova reincarnazione, debba essere il governo cinese. Ed è una cosa che, se non si riferisse ad una realtà così tragica, farebbe ridere. Un governo marxista-leninista che si pronuncia in materia di reincarnazione! Però è così e non vi è, purtroppo, nulla da ridere. Il 18 gennaio 2016, Pechino ha pubblicato la lista dei “Buddha viventi autentici”. Nella lista figurano i nomi di 870 “Buddha autentici”, dei quali vengono fornite non solo le generalità e le fotografie ma anche i nomi religiosi, i monasteri di appartenenza, i titoli accademici conseguiti e la scuola religiosa di appartenenza. Secondo l’agenzia di stato Xinhua, che ha diffuso il rapporto stilato dall’autorità cinese per gli Affari Religiosi, il provvedimento è stato adottato per limitare il crescente numero dei “falsi Buddha”. Non è difficile vedere dietro a tutto questo come si stia preparando il terreno perché, quando verrà il momento (e il governo cinese si augura che arrivi presto), il nuovo Dalai Lama potrà essere nominato da Pechino. Con l’avvallo di questi tulku “patriottici”. Quindi, Giampietro ed io nel nostro piccolo, stiamo cercando di fare capire al pubblico dei non specialisti cosa sia in realtà la tradizione dei tulku e quale sia il contesto in cui si è sviluppata nel corso dei secoli. Per essere precisi dal 1193, quando il lama Dusum Kyenpa lasciò chiare indicazioni relative alla sua reincarnazione.
Cambiando scenario. Lei viene dall’esperienza di Re Nudo. Non posso esimermi dal domandarle qualcosa, 50 anni dopo, su ciò che resta del Sessantotto: una sfilza di speranze perdute, di sogni finiti in proiettili?
Così come è stato complesso il fenomeno che va sotto il nome di “Sessantotto”, parimenti lo è affrontare il tema dei suoi lasciti. Io, come lei ha ricordato, vengo dall’esperienza della rivista Re Nudo e di quello che chiamavamo il “Movimento”, un magma incandescente che ha attraversato il decennio 1968-1978. Si è trattato di un movimento composito in cui si sono incontrate spinte diverse, a volte contrapposte, ma che tutte avevano un denominatore comune.
Sarebbe?
Un forte senso di disagio e di estraneità nei confronti della società borghese da cui, almeno inizialmente, quasi tutti provenivamo. A questo proposito credo che più di tante analisi sociologiche spieghi cosa fosse quel “Movimento” il bel monologo del compianto Giorgio Gaber, “Qualcuno era comunista”.
Che fornisce un bel elenco di motivazioni in base alle quali si “militava”…
Esattamente. Io dovessi sceglierne un paio, opterei per “Fare rabbia a suo padre” e “Chi era contro era comunista”… poi c’era anche qualcuno che era comunista “Perché era nato in Emilia”, “Perché vedeva solo Rai 3” o “Perché era ricco, ma si commuoveva alla feste popolari”… insomma, era una sorta di crogiolo alchemico al calor bianco che ha prodotto una forte e prolungata (almeno in Italia) deflagrazione. Certo ha lasciato anche, come dice lei, una sfilza di speranze perdute e sogni finiti in proiettili. Ed io aggiungerei, “sogni finiti in vena tramite un ago assassino”. Nietzsche dice che “Più si vola alti più ci si fa male quando si cade”, ed è verissimo. Noi volevamo dare l’assalto al cielo e quindi è naturale che quando siamo caduti ci siamo fatti male. Però mi sembra ingeneroso, oltre che non veritiero, stilare un bilancio del “Sessantotto” solo in negativo. Ha prodotto anche, non sempre ma almeno nei casi migliori, una voglia di vedere il mondo al di là dei paraocchi. Uno svecchiamento degli stili di vita. Un certo modo di continuare ad essere “giovani” anche da adulti e maturi, che non c’entra con il grottesco giovanilismo del consumismo televisivo ma rientra in quella che il maestro zen giapponese Shunryu Suzuki-Roshi definisce la “mente del principiante”. Vale a dire una mente fresca, reattiva, stimolata non solo all’inizio di un’esperienza ma per l’intera sua durata. Infatti questo roshi ci ricorda che alla fine della vita bisognerebbe sedersi sul cuscino di meditazione con l’emozione della prima volta. E poi, quello che ai miei occhi è il maggior merito del decennio di cui stiamo parlando, è l’aver prodotto alcune delle più profonde riflessioni critiche sulla moderna società dello spettacolo e dei consumi. E aver conseguentemente rotto con la religione del “Progresso”. E ci ha fatto comprendere che dietro le apparenze c’è altro. E questo, a quanti di noi si sono poi avvicinati al pensiero orientale e in particolare modo al Buddhismo, ha facilitato la comprensione di cosa voglia dire l’Oriente quando afferma che “la realtà non esiste”. Penso in particolare a tre libri fondamentali che hanno trasformato le vite di molti di noi. La società dello spettacolo di Guy E. Debord, Trattato del saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem e La politica dell’esperienza, dello psichiatra scozzese Ronald Laing.
Francamente sono un po’ sorpreso. Mi aspettavo Marx, Lenin, Mao…
Sì, c’erano anche quelli… per quanto mi riguarda soprattutto Marx e Gramsci. Ma erano letture di sinistra più tradizionali. I primi due erano i classici della generazione comunista che ci aveva preceduto, Mao essenzialmente una moda da socialismo esotico. Quelli che ho citato, che probabilmente oggi quasi nessuno più ricorda o addirittura conosce… in specie gli attuali ventenni, hanno però immesso nella riflessione e nell’elaborazione politica un forte e creativo soffio di novità. Sono testi che hanno segnato la discontinuità, almeno delle frange più creative del “Movimento”, con la vecchia tradizione comunista. Che pur rispettavamo ma nel medesimo tempo sentivamo come non più adeguata. Non dimentichi che in questi testi, per la prima volta, si parlava apertamente di coniugare l’innovazione politica a quella personale, antropologica, psicologica. Non a caso uno dei libri che le ho citato è scritto da uno psichiatra.
Come giudica la politica, oggi, le interessa quanto accade in Parlamento? Cosa è successo in questi decenni? Ci dia un orientamento.
A questa domanda, francamente, ho poco da rispondere. Ho un interesse molto tenue per la politica italiana di questi ultimi decenni. Tra esagitati “anti” e altrettanto esagitati “pro”, non mi esalta nessuno. Se mai, passando parecchio tempo nella mia casa in Bretagna…
…dove?
A Quimper, la bella e medievale cittadina della Cornovaglia bretone. Un luogo adorabile, ricco di suggestioni. Ma tornando alla sua domanda… le dicevo che vivendo durante l’anno alcuni mesi a Quimper ogni tanto butto l’occhio sulla politica francese ma anche lì il panorama non mi sembra esaltante, a parte qualche rara eccezione. Dire cosa sia successo in questi decenni meriterebbe un libro e non lo spazio angusto della risposta all’ultima domanda di una intervista. Francamente non ho orientamenti da suggerire. Quello che mi sento di affermare è che vedo una propensione, dal mio punto di vista estremamente negativa, ad essere sempre “contro” piuttosto che “pro”. Quando ero giovane era un limite della Destra… pensi all’anti-comunismo viscerale di quegli anni. Oggi, e me ne dispiace perché in qualche bizzarro modo non posso non definirmi ancora “di sinistra”, per quello che possono valere tali definizioni, questo atteggiamento mi sembra più un fardello che pesa sulle spalle della “Sinistra”. Penso, ad esempio, a certe dichiarazioni un po’ isteriche contro il presente governo. Comunque sono polemiche di poco conto. Ritengo, o quantomeno spero, che l’attuale sia un momento di passaggio… che possa essere superato, cedendo il posto a un qualcosa in grado di immaginare orizzonti politici e culturali meno claustrofobici di quelli attuali. Ma, per dirla con franchezza, non sono particolarmente ottimista. Mi piacerebbe però, prima di lasciare il presente involucro fisico, vedere l’emergere di una proposta che mi faccia marxianamente gridare, rivolgendomi alla Storia, ben scavato vecchia talpa!