“Gli scrittori non sono professori di morale: esprimono la condizione umana”. Un saggio di Simone Weil
Filosofia
Alessandro Burrone
Di profilo, pare un demone che con le fessure degli occhi, varcata la finestra, dissezioni i destini dei passanti, con cinica sagacia sentimentale. Per conoscere Vladimir Nabokov, che costruiva i suoi romanzi come un voluminoso problema di scacchi, bisogna prenderlo per la coda e leggere Intransigenze (Adelphi, 1994), la raccolta delle sue caustiche interviste. Al di là dei giudizi, capaci di corrodere il corno di un rinoceronte, di annientare l’orgoglio di un’orca e di convertire una iena alla dieta vegana – esempi sparsi: “detesto ardentemente I fratelli Karamazov e quella atroce litania che è Delitto e castigo”; “giudico esecrabile D.H. Lawrence”; “Mr E. Pound, venerabile impostore”; “Brecht, Faulkner, Camus… per me non significano un bel niente”; “Finnegans Wake mi lascia indifferente”; “melodrammatico e ignobilmente scritto Zivago di Pasternak” – si eleva la statura di un genio, devoto alla forma artistica e al suo gioco, certo che “un’opera d’arte non ha nessunissima importanza per la società – è importante solo per l’individuo, e a me importa solo il singolo lettore”. La violenza teorica di Nabokov, tuttavia, splende nelle sue Lezioni di letteratura, tenute durante il dorato esilio statunitense, tra il 1941 e il 1958, al Wellesley College e alla Cornell University, ora pubblicate da Adelphi. L’idea di Nabokov è che l’arte è tutto e l’artista è un sommo creatore: “Agli artisti minori è lasciato l’abbellimento del luogo comune: essi non si prendono la briga di reinventare il mondo, ma si limitano a spremere il meglio che possono da un ordine di cose prestabilito, dai modelli tradizionali della narrativa… Ma il vero narratore, colui che fa ruotare i pianeti e plasma un essere dormiente e con zelo gli manomette una costola, non dispone di valori predeterminati: li deve creare da sé”. Perciò, in questo caso, Nabokov si concentra sull’analisi – millimetrica, spasmodica, soffocante – dei romanzi che ritiene assoluti, pochi ma buoni (Mansfield Park, Casa desolata, Madame Bovary, Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr Hyde, Dalla parte di Swann, La metamorfosi, Ulisse), consapevole che la letteratura “è lusso, puro e semplice”, intuile ai fini del quieto vivere, ma necessaria “a provare il senso di appagamento puro e assoluto… una sensazione di serenità, di benessere mentale più genuino, la serenità e il benessere che proviamo quando comprendiamo che, malgrado le tante cantonate e i tanti spropositi, anche il tessuto interiore della vita è questione di ispirazione e precisione”. A me Nabokov ha sempre dato l’idea di essere Dedalo, un inafferrabile costruttore di labirinti: al centro di ogni romanzo – la scoperta spetta al lettore – c’è il mostro o uno sfarfallio di ombre. Il labirinto più arduo e voluttuoso che Nabokov edifica negli Usa, come si sa, è Lolita. Il romanzo è un caso unico nella letteratura del Novecento, di ogni tempo: scritto da un russo in inglese, viene poi tradotto dall’inglese al russo dal medesimo autore, Nabokov, con l’intento di evitare che modesti traduttori ‘trafugassero’ il suo capolavoro, ma anche, maliziosamente, gettando una fragola nel grigio, omicida sistema sovietico. Lolita viaggia in Unione Sovietica, per oltre un ventennio, nel circuito del samizdat – e leggere quel romanzo costa molto caro – fino a essere pubblico nel 1989: ancora oggi, che Nabokov è considerato una divinità della letteratura russa, capita che qualche lettore zelante lo accusi di oscenità e di istigazione alla pedofilia. Su “Lolita e il suo doppio: l’autotraduzione e la ricezione dell’opera nel contesto sovietico e post-sovietico” (in: Linee di confine. Separazioni e processi di integrazione nello spazio culturale slavo, Firenze University Press, 2013) ha scritto un saggio importante Irina Marchesini, ricercatrice e insegnante di lingua russa presso l’Università di Bologna. Così, per capire qualcosa dell’inafferrabile ‘Vlad’ mi sono rivolto a lei. (d.b.)
Nabokov, la Mamma Russia, Lolita. Quando Nabokov si propone di tradurre “Lolita”, l’unico romanzo che tradurrà dall’inglese al russo, se non erro, pensa davvero di poter essere riconosciuto nella sua terra natia?
Sì, sicuramente immaginava che un giorno Lolita sarebbe stata pubblicata anche in russo. Sebbene nella postfazione all’edizione russa abbia descritto la decisione di autotradurre questo romanzo come il ‘capriccio di un bibliofilo’, Nabokov voleva in realtà dare una traduzione corretta nella sua lingua madre a quella che considerava la sua migliore opera scritta in inglese. Come ha spiegato in un’intervista per ‘Playboy’ del 1964, peraltro rilasciata nel periodo in cui stava lavorando al progetto, è stata la paura di vedere il suo testo distorto e snaturato da una cattiva traduzione a spingerlo in quella direzione. Una direzione che aveva intravisto grazie a quello che chiama il suo ‘telescopio interiore’, puntato verso una particolare nicchia di un non meglio precisato lontano futuro. Nello stesso spirito, aveva iniziato a tradurre verso il russo anche Ada, or Ardor (1969), senza però ultimare il lavoro. Il crescente successo di scrittore ‘americano’ ha dunque plasmato in maniera decisiva l’idea che aveva della sua fortuna in madrepatria: Nabokov è passato dall’iniziale pensiero ‘straziante’, come lui stesso ebbe a definirlo, di sapere i suoi libri proibiti alla coscienza di una possibile, futura circolazione ufficiale.
Che circolazione ha avuto e ha Lolita in Russia? Nel suo studio lei specifica alcune recenti accuse che hanno colpito quel romanzo, me le può esplicitare?
È molto complicato riassumere in poche parole il problema della ricezione di Nabokov in Unione Sovietica e in Russia. In estrema sintesi, fino alla fine degli anni Ottanta Lolita transitava attraverso canali non ufficiali di diffusione della letteratura: nel mercato nero, una copia originale del libro costava ottanta rubli, una somma con la quale all’epoca si poteva vivere modestamente per un mese intero. Prendere in prestito il libro costava cinque rubli a notte, ma il prezzo raddoppiava se il lettore decideva di copiare il testo e diffonderlo ulteriormente; nella casa museo Nabokov, a San Pietroburgo, sono conservati esemplari di riproduzioni samizdat (edito in proprio). Diversi mesi dopo la cancellazione del divieto di circolazione, l’autotraduzione russa viene finalmente data alle stampe, vedendo la luce nel 1989. Si stima che negli ultimi anni precedenti la dissoluzione dell’Unione Sovietica siano circolate quasi due milioni di copie. Nella Russia post-sovietica Nabokov è ormai un autore canonizzato, padre riconosciuto del postmoderno russo. Molto è stato fatto e viene ancora fatto per la valorizzazione in Russia della sua opera; si pensi, ad esempio, alle conferenze internazionali a lui dedicate che ogni anno si tengono a San Pietroburgo nei mesi di giugno e luglio. Tuttavia, per una rigorosa ricostruzione della fortuna di Lolita in Russia è necessario registrare anche le periferiche voci fuori dal coro, come quella dell’arciprete Čaplin che nel 2011, durante un’intervista radiofonica, ha proposto di ritirare il romanzo dal mercato poiché potrebbe spingere alcune persone a commettere atti di pedofilia. A ben vedere, la posizione miope di questo esponente della chiesa ortodossa si basa su preconcetti simili a quelli che hanno motivato i numerosi rifiuti ricevuti da Nabokov nei primi anni Cinquanta. L’ingannevole malia di Lo continua dunque a far discutere e Lolita rimane ancora, a mio parere, il romanzo più incompreso della storia della letteratura mondiale.
La Lolita russa, si dice, è ‘sorella’ di quella statunitense, ma non è ‘gemella’. Di fatto, più che una traduzione è un ‘originale’. Nella postfazione all’edizione russa Nabokov giustifica la sua traduzione: in che modo?
In realtà, tutte le traduzioni sono ‘sorelle’ e mai ‘gemelle’. Cosa farebbero alla povera Lolita, si chiedeva Nabokov nella postfazione, traduttori inglesi che conoscono poco il russo o, viceversa, traduttori russi che conoscono poco l’inglese? Per proteggere la sua ‘creatura’, il nostro decise di optare per una traduzione letterale: se, da un lato, vanno certamente rilevate soluzioni traduttive originali, in generale il risultato è piuttosto aderente all’originale. Ad esempio, nell’impossibilità di trovare un equivalente, alcune espressioni idiomatiche americane vengono parafrasate. Un discorso a parte va fatto per il lessico legato alla sfera sessuale, molto smorzato nella versione russa poiché, scrive Nabokov nella postfazione, la lingua inglese è più adatta ad esprimere ‘passioni innaturali’ rispetto al russo. Guardando attraverso la filigrana di queste scelte emerge la preoccupazione di Nabokov per la tutela della propria opera, anche da potenziali rimaneggiamenti, nonché censure, di stampo sovietico. Lavorando in prima persona alla traduzione, Nabokov ha così lasciato ai posteri un ‘doppio’ dell’originale, la cui autorevolezza sarebbe rimasta indiscussa anche dopo la sua morte.
La Russia appare ovunque, trasfigurata, trapiantata in un regno della speranza e della perdizione, mi pare, nei romanzi di Nabokov. Esiste la Russia di Nabokov, infine; esiste la mitologica Zembla? Che rapporti ha Nabokov con la letteratura russa del suo tempo? Da ciò che si legge in Italia, si sa che Nabokov malsopporta il Pasternak romanziere, ama “Anna Karenina” ma è irritato dal Tolstoj ‘profeta’, ha un giudizio ambiguo verso Dostoevskij, adora Chodasevic… Pare il regno della contraddizione, della voluttà estetica. Ci aiuti a capire.
Vorrei rispondere citando la definizione nabokoviana di arte: similmente alla natura, essa è ingannevole e complicata. Con gli stessi aggettivi si potrebbe definire il rapporto di Nabokov con gli altri scrittori, soprattutto russi: spesso, nelle interviste, esprimeva opinioni molto forti; non a caso, il volume che le raccoglie prende il titolo originale di Strong Opinions (in Italia: Intransigenze, Adelphi). Tuttavia, le sue posizioni vanno prese cum grano salis, poiché spesso erano legate ad una precisa immagine che cercava meticolosamente di costruire negli anni. Non ci sono dubbi, invece, su quello che pensava degli scrittori sovietici, per lui agli antipodi della nozione di arte in quanto asserviti al Potere. L’opposizione scrittori russi/scrittori sovietici è peraltro collegata alla sua visione della Russia: la Russia di Nabokov, la Russia che amava, è quella della sua infanzia, una terra che ha lasciato nel 1919 per un forzato esilio poi durato tutta la vita. Di lei si trova costante traccia nelle poesie e nei romanzi ‘russi’, in primo luogo nell’uso della lingua; è presente anche nei romanzi ‘americani’, soprattutto in Pale Fire (Fuoco pallido, Adelphi), dove troviamo quell’immaginifica ipostasi che prende il nome di Zembla. L’Unione Sovietica, invece, è quel luogo dove non si piegò mai a tornare. Per ‘vedere’ la Russia con gli occhi di Nabokov, non si può prescindere dalla lettura di Parla, ricordo (Adelphi). Invece, per approfondire il discorso su Nabokov e gli scrittori russi, oltre alle interviste, consiglio le sue Lezioni di letteratura, che Adelphi ha recentemente ripubblicato, in attesa della ristampa delle Lezioni di letteratura russa.
Il Nabokov traduttore è in conflitto con il Nabokov teorico della traduzione?
L’atteggiamento di Nabokov nei confronti della traduzione e dell’autotraduzione era decisamente complesso. In una lettera a James Laughlin paragonava la traduzione ad un complesso esercizio ginnico che richiede il coinvolgimento di una specifica parte del cervello; lo sforzo provocato dal continuo saltare da una lingua all’altra arrivava addirittura a causargli una sorta di asma a livello mentale. Come se non bastasse, secondo lui questo logorante compito non poteva escludere una componente di inganno, derivata non soltanto dall’oggettiva non equivalenza linguistica, ma anche dal pericolo delle scarse competenze di alcuni traduttori. Secondo la sua più matura teoria della traduzione, il traduttore deve sottoscrivere un patto di assoluta fedeltà con l’originale: così, privilegiando esattezza e precisione, si era approcciato alla traduzione verso l’inglese dell’Evgenij Onegin di Puškin (1833; se ne occupò dal 1958 al 1964), autentico monumento della letteratura russa; sugli stessi criteri improntò la sua autotraduzione di Lolita. Tuttavia, appena un anno dopo il lavoro sull’Onegin, autotradusse il breve romanzo Sogljadataj (L’occhio, 1930), ripensandolo in maniera significativa e lasciando più spazio alla traduzione libera; in questo caso, l’autotraduzione ha fornito all’autore un’occasione per rielaborare creativamente la sua opera. Su queste basi, si potrebbe concludere che si tratti di un conflitto; eppure, preferisco pensare ad una compresenza di due approcci traduttivi, scelti da Nabokov in base alle caratteristiche dell’opera da tradurre, al suo personale rapporto con essa (maggiore la sua importanza, maggiore deve essere la ‘fedeltà’, per evitare fraintendimenti) e al tipo di pubblico che ha in mente.
Che tipo di ‘attualità’ possiamo riscontrare nell’opera romanzesca di Nabokov, a suo avviso e dove dovrebbe orientarsi la ricerca letteraria nei riguardi di questo autore tanto immenso, a tratti inafferrabile?
La ringrazio molto per questa domanda, che mi permette di dire qualcosa che non mi stancherò mai di ripetere: che si tratti di fare ricerca a livello accademico o di coltivare un proprio interesse personale, il passo che necessariamente bisogna compiere va rivolto verso i romanzi russi di Nabokov. Prima di diventare uno scrittore ‘americano’, Nabokov era uno scrittore russo; in russo sono pubblicati la maggior parte dei suoi romanzi. Occorre dunque avere una certa dimestichezza non solo con la cultura, ma anche con la lingua russa, altrimenti come si può pensare di risolvere quelli che lui stesso definisce ‘enigmi con soluzioni eleganti’? Come si può pensare di cogliere i frequentissimi giochi di parole interlinguistici, le abbondanti allusioni, i dettagli che implicitamente caratterizzano personaggi e ambientazioni? Sviluppando tale competenza, il lettore di Nabokov non soltanto si faciliterà la vita e capirà qualcosa in più, ma avrà anche la possibilità di avvicinarsi ad un paese la cui immagine ultimamente è stata molto danneggiata. L’attualità di Nabokov, si badi bene, non si esaurisce soltanto nella sua funzione di palestra per la mente o di ponte privilegiato verso una cultura. Ogni singolo romanzo di Nabokov sarà sempre attuale perché come uno specchio ci invita a riflettere sulla nostra identità e a interrogarci su temi universali come la vita, la morte, l’amore, l’arte. Quanto è bello perdersi nelle profondità di un fitto bosco con un sentiero serpeggiante di specchi in cui si fondono i sembianti di Lolita, Laura, Flora, V., Vadim, Vivian, Violet, Van Veen…
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*Irina Marchesini è ricercatore senior presso l’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, dove insegna storia della lingua russa. I suoi principali interessi accademici includono lo studio della prosa sovietica e post-sovietica, l’evoluzione della lingua russa nello spazio sovietico e post-sovietico, l’autotraduzione e la narratologia. È autrice di oltre trenta saggi in ambito slavistico, traduttologico e narratologico, nonché delle due monografie Levigati dall’assenza. La costruzione del personaggio nella prosa metafinzionale russo-sovietica e Lo specchio del tempo. La permanenza del retaggio linguistico-culturale anticorusso nella prosa russa contemporanea (UniversItalia).