La religione a teatro? Se ne vede poca. Generalmente è la società, o meglio il dissidio individuo-società, ad attrarre i drammaturghi. A teatro si parla raramente del rapporto individuo-Dio o del conflitto individuo-società visto attraverso il problema di Dio. Ed ecco che in questo testo di Marius von Mayenburg, invece, vediamo all’opera proprio questo tipo di motore drammatico: un ragazzo delle superiori si innamora della Bibbia e la elegge a manuale normativo di vita. La legge letteralmente, e come tale vorrebbe applicarla. Così vediamo, nella prima scena, le sue adirate contestazioni contro i bikini delle compagne di classe che si esercitano nel nuoto. Lo seguiamo, poi, mettere sempre più in difficoltà una professoressa di biologia, materialista, evoluzionista e libertaria, che insegna educazione sessuale mostrando l’utilizzo dei preservativi con l’ausilio di carote debitamente distribuite. Arriva addirittura a progettare con un compagno, anch’egli un escluso dal gruppo-classe per via di una lieve disabilità, l’omicidio dell’insegnante stessa.
In mezzo, tutto un affollarsi di personaggi: la compagna sessualmente disinibita che vuole sedurre il giovane convertito, in realtà attratto dal sesso, la mamma nevrotica, la prof progressista, il preside cialtrone, il prete rock e il compagno di classe sfigato, segretamente innamorato del fanatico. Dove vuole arrivare il testo? Vuole mettere al centro un rinnovato interesse per la spiritualità e indagarlo, anche con il grottesco? Non ci sembra. Forse vuol mostrare come un adolescente possa essere capace di opporsi a un certo conformismo libertario recuperando un atteggiamento bigotto, paradossalmente inteso come avanguardia di un nuovo anticonformismo? Ci vorrebbe una buona dose di ironia, che il testo non mostra di possedere. Tuttavia, a tratti, sembra di scorgere proprio questo nella parabola del giovane. Insomma, in una società imbalordita dal consumo e dalla nevrosi, ancora imbottita di noia ma spaventata dalla crisi epocale, ecco un giovane prendere la Bibbia in mano e impugnarla come un randello per attaccare tutto il sistema costituito – che poi, in filigrana, uno ci può leggere anche il giovane musulmano indottrinato alla guerra santa in versione occidentale. Essendo di fatto una commedia, amarognola, ma commedia, dove è previsto che il pubblico rida? Spesso riderà delle esagerazioni bigotte del ragazzo e delle reazioni che provoca negli altri personaggi, il che si risolverà in quello che appare un convenzionale sberleffo ai luoghi comuni della religiosità canonica. Però non è niente di nuovo. Di nuovo ci sarebbe forse un personaggio che, attraverso il contatto con un testo sacro ustionante, scopre un’altra dimensione della realtà? Intrigante. Oppure l’autore vuole farci vedere come si possa diventare martiri religiosi, estremisti fino al punto da progettare la morte di qualcuno, a partire dall’analisi psicologica spicciola di un giovane studente? Anche questo sarebbe interessante. Ma sono tutte possibilità che vengono sfiorate e non affrontate. Ci si trova, insomma, ad assistere al delirio crescente del fanatico senza spunti davvero problematici, almeno così ci sembra. Con un finale tra il grottesco e il melodrammatico – invero un po’ sopra le righe –, che sembra una citazione cristologica in minore, in cui la prof darwiniana, per sfuggire alle accuse rivoltele di voler perseguitare i due ragazzi, e per reagire al licenziamento che ne segue, pensa bene di inchiodarsi i piedi alla cattedra. In tutto questo, l’energia degli attori è esuberante, la tecnica non fa certo loro difetto. La giovinezza e il talento, peraltro, li mettono certamente nella condizione di poter superare nel tempo la fase di ostensione delle capacità. Due parole sulla regia, che è concepita come un susseguirsi di fuochi artificiali. Il dispositivo scenografico, una sorta di “sipario” di legno, posto in estremo proscenio parallelamente alla linea del palco, chiuso, diventa parete nera su cui può stagliarsi a un certo punto un crocefisso; aperto, nella parte bassa, diventa gradino, muretto, superficie che gli attori usano come praticabile o piano d’appoggio. Si va poi dalle coreografie in stile musical alla repentina apparizione di una catto-rock band da servizio messa, formata da prete e suore che cantano e suonano dal vivo. Si passa dall’invasione degli attori mascherati da scimmie sull’accenno a Darwin, fino alle frequenti sortite tra il pubblico in sala (“gattonate” sugli schienali delle poltrone, entrate dal foyer, affollamenti tra prima fila e palco, schermaglie sulle scalette laterali di accesso al palco e così via), in cui si dà fondo a tutto il repertorio possibile delle trasgressioni dello spazio all’italiana. Al punto che forse verrebbe da dire: la sollecitazione dello stupore nello spettatore è certamente un buon procedimento per tener desta l’attenzione, nondimeno, aggiungiamo sussurrando, destarne l’attenzione sottile è un conseguimento non meno importante.
Franco Acquaviva
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Martiri
di Marius von Mayenburg | traduzione Umberto Gandini | regia Bruno Fornasari |
con Luigi Aquilino, Edoardo Barbone, Denise Brambillasca, Gaia Carmagnani, Eugenio Fea, Ilaria Longo, Simone Previdi, Alessandro Savarese, Valentina Sichetti, Daniele Vagnozzi | costumi e oggetti di scena Federica Pellati | luci Fabrizio Visconti | movimenti coreografici MartaBelloni | direzione tecnica Silvia Laureti | équipe tecnica Cristiano Cramerotti, Maria Virzì | assistente alla regia Chiara Serangeli con Laura Herder (stage) | produzione Teatro Filodrammatici di Milano con il sostegno di Accademia dei Filodrammatici
Teatro dei Filodrammatici, Milano, dal 22 maggio al 3 giugno 2018
Visto il 1° giugno