15 Novembre 2022

“Se non parlate del mio libro mi alzo e me ne vado”. Sull’incommensurabile Francisco Umbral

RTVE, televisione spagnola. Il programma è “Queremos Saber” condotto da Mercedes Milá. È il 21 Aprile 1993, Il protagonista è Francisco Umbral. Mancano pochi minuti alla fine del programma quando, divorato dal suo stesso personaggio, Umbral perde la pazienza e si pronuncia (episodio facilmente reperibile in rete) diventando virale fin da subito:

“Mi hai detto personalmente al telefono, Mercedes, che sarei venuto qui, questo pomeriggio perché è stato presentato il mio libro. Stiamo finendo il programma e del mio libro, che è lì sul tavolo, non si è parlato, e se non se ne parlerà affatto, sono pronto ad alzarmi e ad abbandonare il tavolo, perché sono venuto qui per parlare del mio libro e non per parlare di quello che pensa la redazione, per me è indifferente, perché è per questo che ho la mia rubrica e la mia opinione quotidiana. Quindi se non parlate del mio libro, mi alzo subito e me ne vado”.  

Esattamente 28 anni dopo la RTVE produce il documentario Anatomía de un Dandy, candidato a un Goya nel 2021. È un Ritratto di Umbral attraverso documenti inediti, cassette con interviste intime, preziose testimonianze della vedova, degli amici e dei colleghi dello scrittore. Eppure per quanto si possa cercare di svelarlo attraverso le sue apparizioni, Umbral va letto, proprio perché la sua maschera mondana spesso confonde e infastidisce. Personaggio scorretto e insaziabile, dalla voce tanto cavernosa quanto pungente Umbral in Italia è praticamente sconosciuto (Mortal y Rosa, edito da Jaca Book nel 1997 e con immensa sorpresa  quest’anno la casa editrice Settecolori ha pubblicato La notte che arrivai al Café Gijón tradotto da Giuliana Calabrese). La mole degli scritti è immensa, 10.000 articoli e quasi 200 romanzi. Tutta la sua opera è opera di memoria.

Qui tradotti alcuni brevi estratti inediti del libro Las ninfas, Premio Nadal nel 1975. L’adolescenza che perde l’illusione decadente di essere sublime senza interruzioni. Il desiderio della donna amata, l’erotica del condividere avventure con gli amici. Una notte d’estate, in un’atmosfera dove il nero è blu trasparente.

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Le ninfe

Prologo

La camera era quadrata o rettangolare, o oblunga o forse era oblungamente rettangolare, oblungamente quadrata, rettangolarmente ovale, ellitticamente quadrata, chi lo sa, non ricordo. La camera era probabilmente ogni giorno di forma diversa, ogni sera, ogni notte, quando la pioggia celeste delle sue pareti calava come un lento dissanguarsi serale, come un pianto delle tende o una respirazione degli specchi, un’umidità del tempo più che dell’aria. Ad ogni modo, la camera aveva un’atmosfera blu, però sapevamo bene che ciò che si opponeva a quel blu era una tinta seppia, un seppia bruciato, un seppia di ricordo, magnesio e oblio. Diciamo pure che la volontà di quella camera era blu, che la camera aveva una volontà da blu, o volontà blu più semplicemente, eppure ogni tanto veniva tradita dal seppia; veniva fuori dal fondo degli armadi, dai cassetti, da sotto il tavolo o il tappeto, da dietro gli specchi, i quadri, le fotografie; era allora che spuntava qualche bordo seppia, qualche tenda o battiscopa triste. Come una donna vestita di blu che lascia intravedere sorridendo un dente di metallo. Blu è la nostra fede nella vita, seppia è la sua realtà, il colore triste e antico che divorerà quei blu, il caldo e sporco fuoco che impallidisce tutte le cose; ciò nonostante eravamo sufficientemente giovani da non vedere o voler vedere quel color seppia, come per lasciare le nostre anime, quelle poetiche carpe, nuotare nell’acqua blu della camera blu […]

I.

Era l’epoca delle letture dei poeti orientali, quanto più orientali, tanto meglio. In quel periodo leggevo Omar Khayam, e Omar Khayam diceva: “In te ci sono il paradiso e l’inferno”. In me stesso stavano cielo e terra, o per lo meno, dentro casa mia. Perché tutto tende – la città, la casa, l’uomo – a riprodurre quella struttura doppia e antagonista che nei libri cinesi di mio cugino veniva chiamata lo ying e lo yang, così che dall’altra parte della casa, e in contrapposizione alla stanza blu, c’era il bagno, l’orribile stanza delle defecazioni e delle masturbazioni. Tra il bagno e la stanza blu, tra sublimità e necessità, tutto il resto della casa, stanze grandi con pochissimi mobili, stanze piccole strafogate di mobili, lunghi corridoi senza persone, brevi corridoi sovraffollati, tutto l’accumulo di donne anziane, vecchi, parenti, padri, madri, zie, bambini, visitatori, fattorini e suore, tutto quello che in fondo è una casa. Così io ero l’ombra vagabonda e solitaria che oscillava tra la camera blu e il gabinetto, tra la stanza libera e sublime delle letture e della musica, e la puzza della stanza verticale della masturbazione e della nudità. Il buono e cattivo, lo ying e lo yang, il paradiso e l’inferno. Dentro al bagno, coronato dalla luce di un’alta finestra – luce di vivi cortili e ritagli di cielo – mi confrontavo, seduto sulla tazza, con quei muri che avevano una lebbra gialla, una malattia umida, un brutto ed eterno segreto, e bastava il battente della porta per sentirsi isolati da tutto, caduti nell’inferno di Dante (la mia lettura d’allora). Il cesso, con la sua miseria ramata, i suoi orinatoi doloranti, i suoi vecchi giornali e il suo patio e l’odore di fogna, era il male, la prova che l’inferno esisteva da qualche parte. Il bagno non poteva che essere il riflesso di un regno molto più grande e atroce. Una sala dell’inferno perduta tra le stanze della nostra casa. Il bagno era la stanza del peccato. A volte sembrava il mio inferno personale, esclusivo e segreto, la mia condanna e la mia prigione, il luogo in cui si frustravano tutti i miei sogni di sublimità. Però in tempi di maggiore lucidità, di profonda riflessione, capivo che il cesso apparteneva a tutti, tutti lo usavano, quindi più che un inferno era come un purgatorio in cui le anime entravano e uscivano una alla volta e nude. L’ anima grassa e canora delle zie, l’anima malinconica e silenziosa della cugina, l’anima rude e incontinente dei preti, l’anima piccola ed egoista dei vecchi. Il Purgatorio, più che nel quadro con le fiamme sulla testiera del mio letto, era lì in quella stanza, solo che non era un purgatorio collettivo – ciò gli avrebbe già dato una certa vivacità – ma era un purgatorio individuale e in questo stava la sua malvagità, la sua perversità, la sua punizione […]

II.

[…] Non sapevo che Trotsky fosse morto, lasciando il suo sangue rivoluzionario sull’illustre argilla del Messico, per un colpo d’ascia stalinista e che prima di questo avesse scritto contro quel sostrato bohémien e borghese che esiste in tutta l’arte, compreso contro quelli che si sentono sovversivi. Io non sapevo quasi nulla, in quei crepuscoli viola e neri di nebbia e silenzio, tuttavia sentivo che la cultura era un mondo a parte, una salvezza, un ambiente più pacifico, meno sanguinoso e meno pressante della vita. Forse era una fuga. Forse allora iniziavo a fuggire e, invece di imboccare la strada che portava al biliardo, ai soldi e alla violenza, o quella che portava alle prostitute, al vino e alle malattie, avrei preso la via tranquilla e innocua della cultura, e mi ero messo a cercare quel Circolo Accademico dove si incontravano i giusti della città, coloro che professavano, come io volevo professare, la serena e codarda religione della cultura […]

Francisco Umbral

Gruppo MAGOG