01 Marzo 2024

“Con mani troppo grandi per regalare un fiore”. La Trieste di Umberto Saba

Non è raro che la città – circo di vita, per ciascuno consolazione e oggetto di ripetuti, ripetitivi e infiniti sguardi quotidiani – si trasformi in uno stato di coscienza. Quartieri, viottoli, panorami vengono allora ad assomigliare ad emozioni, piuttosto che a semplici architetture.

Occorre molto tempo perché un luogo si impossessi di noi, costringendoci a fondervi il nostro spirito ma, alla fine, in qualche modo, quel collegamento assume una forma che ci compenetra. È quanto emerge nei silenzi e nelle immagini della Trieste di Saba: un amore viscerale, simbiotico per la città natia, indissolubilmente legata al suo destino umano e poetico:

“Ho attraversata tutta la città.
poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
la mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva”.

A tratti acerba, a tratti dolce e rassicurante, Trieste è luogo di confine, custode di infiniti silenzi, accompagnatrice taciturna di solitarie passeggiate. Della sua geografia e della sua vena, che ne fa terra di mare, di vento e molteplici culture, Saba canta il piglio accogliente e respingente, l’esser luogo che incanta ed offre un posto dove stare, un “cantuccio”, ma anche una malinconica inquietudine.

Attraversare Trieste significa sentire la vita lungo vene di inchiostro, come avvolti nell’eterno presente di un variegato mosaico, ove pare che tutto debba ancora cominciare e una nuova pagina possa sempre essere scritta. È l’incanto triestino che ha la maldestra grazia di “un ragazzaccio aspro e vorace” con gli occhi color del cielo e “mani troppo grandi/ per regalare un fiore”, come un amore reso scontroso dalla gelosia. Con queste due immagini Saba esprime l’amore (anche conflittuale) che lo lega alla sua città natale, quasi la sentisse incapace di mostrare fino in fondo la propria dolcezza, nutrita di profonde contraddizioni:

“Non so nemmeno se – dal punto di vista dell’igiene dell’anima – sia stato per me un bene nascere con un temperamento classico in una città romantica; e con un carattere (come quello di tutti i deboli) idillico, in una città drammatica. Fu un bene – credo – per la mia poesia, che si alimentò di quel contrasto, e un male per la mia – diciamo così – ‘felicità di vivere’. Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome”.

Quel nostalgico confine ‘materiale e spirituale’ di cui parla Saba pulsa intensamente nella Città vecchia, vivace e antica voce palpitante, che richiama sempre – come un canto di sirena – ad essere percorsa e ripercorsa, infinite volte. Nell’attraversarla, il passo si fa lento, come un invito ad indugiare, per avere il tempo di appoggiare il nostro orecchio al suo cuore:

“Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via”.

Nelle antiche vie della città vecchia giacciono dimenticate alterne fortune, afflizioni, gioie e delusioni; le persone, tratte nude come lo sono di fronte alla vita.

Stare sul confine dell’anima è proprio questo: puntare l’occhio sull’“aria strana”, sull’“aria tormentosa” che agita, illuminare un piccolo cantuccio e da lì osservare la stessa vita che scorre in sé, come un grande porto di mare. La scrittura si fa obliqua, quasi un dialogo con il sottosuolo, ove si ritrova “l’infinito/ nell’umiltà”, nel bel mezzo dell’umanità, tra le “creature della vita e del dolore”. E in quel dialogo, nelle grandi domande dell’esistenza, si mescolano tante voci: Saba, Joyce, Svevo, Buzzati e tutti gli scrittori che sul confine e sull’attesa hanno costruito il loro fine udito letterario, cercando di scorgervi lontane figure all’orizzonte, avvertendone l’arrivo per il fruscio del loro passo.

Riccardo Peratoner e Marilena Garis

Gruppo MAGOG