Non molto tempo fa mi è accaduto di scorgere e poi stringere tra le mani Il canzoniere di Umberto Saba. Non ho potuto affatto resistere all’occasione ghiotta scoperta tra le bancherelle, poiché si trattava di una seconda edizione Einaudi (aumentata, riveduta e corretta) del 1948. In una parola: bellissima! Allora, come sempre ‒ rintanato nella stanza-studio, protetto dai libri a picco sui miei occhi, quasi simili a una catena alpina ‒ sfoglio Il canzoniere, leggo alcune poesie qua e là; fino a quando apro a caso e trovo ciò di cui vorrei parlare. E mi accorgo che questi versi di Saba, che hanno come titolo POESIA, simboleggiano il riassunto esatto di ciò che è, o dovrebbe in molti casi essere, la vita.
Sì, perché a volte, gesto propizio, è più la vita della poesia a dar ragione dell’irragionevole inganno al quale siamo puntualmente costretti da un’irresoluta invidia o rabbia recondita, nei confronti di chi o di tutto ciò ci sta sotto il naso. E sempre senza alcun motivo apparente, se non quello dell’inconfondibile ferocia, ma, per meglio dire, fatica che spesso spossa e ci stanca.
D’altro canto, che senso avrebbe vivere se nulla si può conquistare faticando? Che si gioisca veramente, dopo aver lottato e sudato! Altrimenti sarebbe tutto un bluff, vanteria infondata, l’ennesima montatura di una maschera: finzione alquanto pericolosa; quel vincere facile, che troppo spesso ormai dimora negli sguardi delle canaglie che incontriamo al nostro passaggio.
È come a un uomo battuto dal vento, accecato di neve ‒ intorno pinge un inferno polare la città ‒ l’aprirsi, lungo il muro, di una porta.
Entra. Ritrova la bontà non morta, la dolcezza di un caldo angolo. Un nome posa dimenticato, un bacio sopra ilari volti che più non vedeva che oscuri in sogni minacciosi.
Torna egli alla strada, anche la strada è un’altra. Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci spezzano mani operose, il celeste rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa che ogni estremo di mali un bene annunci.
Così io pure, caro lettore, mi sento di aprire quella porta che dà proprio qui dove ti scrivo. La città ‒ la vita, a volte (lo sai benissimo anche tu) ‒ è un inferno. Allora io so che entrando in questa stanza, di giorno come di notte, ritroverò “la bontà non morta, / la dolcezza di un caldo angoloˮ.
E questo mi permetterà di ricominciare ogni giorno, donando parole a qualcuno, sperando (come Nadežda Mandel’štam) contro ogni speranza. Intuendo, forse non troppo ma quanto basta, “che ogni estremo di mali un bene annunciˮ, essenzialmente scrivendo… se non, caso mai, testimoniando.