Sono veramente pochi gli autori che amo sul piano personale, quindi oltre il doveroso atteggiamento oggettivo del fare critica. Uno di questi è Andrea Campucci. I suoi testi sono così intrinsecamente perversi e bastardi da risultare adorabili, tanto da far spuntare sul volto, mentre li si legge, ghigni di compiaciuta malignità. È una strana simpatia per la follia che questo scrittore riesce a suscitare, simile solo a quella provocata dalla prima visione di Arancia Meccanica. Alla fine, ci si ritrova ad accarezzare le pagine dei suoi romanzi con la stessa dolcezza delle unghie di Freddy Krueger che dilaniano una qualche sfortunata vittima. Con spirito assolutamente partigiano vorrei quindi invitarvi a leggere Plastic Shop e Porn Food, ma soprattutto a comprare quanto prima una copia di Movida, il suo ultimo romanzo. Non per altro, ma è necessario affinché questo venga stampato: la sua pubblicazione infatti dipende da un certo numero di acquisti preventivi – tale formula è nota, oggi, con l’altisonante anglicismo di crowdfunding. Potete pensare ciò che preferite in merito, ma vi prego di lasciar perdere. Di un testo conta solo e unicamente la forza della scrittura. Di editoria ed editori chi se ne frega. Movida è una bomba, solo che non l’ha scritta Cognetti, altrimenti sarebbe in vetta alle classifiche – ecco spiegata la tragedia della letteratura nazionale.
Andrea, un nuovo romanzo, Movida, che rientra in un più ampio progetto, una sorta di analisi in forma narrativa del nostro tempo. Perché non ci racconti questo percorso letterario a cui, testo dopo testo, stai cercando di dare forma.
Ah, non attribuirmi troppe qualità da analista o sociologo dei tempi che corrono perché potrei anche offendermi. Movida può esser letto come l’ennesimo “strappo”, o squarcio, o sguardo, su certi fenomeni che hanno di per sé un che di putrescente. Dai centri commerciali – Plastic shop – alle nuove tendenze social – Porn food –, sono sempre stato attratto dal verbo marcire, dall’idea, forse un po’ snob, della caduta (il mostruoso che si nasconde dietro la facciata perbenista e svenevole delle cose…), per cui mi sembrava più che ovvio percorrere questa strada fino in fondo e giungere a vedere cosa potesse regalarmi fare a brandelli un nuovo velo di Maya. Così è nata l’idea di dedicarmi al concetto già di per sé insopportabile di movida, un fenomeno che può essere incollato su qualsiasi città occidentale e che prevede sempre, immancabilmente, lo stesso copione: alcol, droghe psicotrope e un’irragionevole libido che fa da sponsor a una nightlife tutta lustrini e techno music sparata a palla… Quindi annullamento del raziocinio, scomparsa della sobrietà, regressione, ritorno a un primitivismo ebbro e irresponsabile. Ultraviolenza e allegri ammazzamenti intesi come disvalori in grado di sgretolare i supposti principi di una società fintamente benestante. C’è tutto questo in Movida, ma non mi si prenda per il solito bacchettone del castigat ridendo mores. Io per primo, in tante serate analoghe, mi son divertito parecchio.
Veniamo adesso alla domanda apparentemente più semplice, ma in verità difficilissima: qual è la ratio essendi del tuo nuovo romanzo? Più prosasticamente, perché vi era la necessità di raccontare la vita notturna e l’umanità che la abita?
Perché è proprio in queste situazioni che riaffiora l’animale. L’umanità ha davvero rotto i coglioni con quest’idea, un po’ progressista, radical chic e tutto il resto, di un uomo civilizzato e proteso assurdamente verso il bene. Che si parli di giovani, vecchi, milf o professorini di liceo, il discorso non cambia. Qualsiasi categoria sociale si porta dietro un certo marchio di decostruzione, come di un imminente disastro, ed è per questo che la letteratura si è sempre soffermata sul crollo, lo sfacelo, la smaterializzazione del socratico Ti estì. Nulla è cambiato dai tempi degli inquieti borghesi di Ibsen fino ad arrivare a Irvine Welsh. Se ho scelto di soffermarmi sul fenomeno della movida è perché rappresenta una di quelle situazioni borderline in cui l’idea di disastro riemerge con prepotenza, portandosi dietro una popolazione di sciagurati che proprio per questo non possono non risultare perlomeno onesti. I miei personaggi infatti sono dei gran figli di puttana, dei pagliacci mossi dai più bassi istinti di questo pianeta, dei giovinastri che non hanno nulla da insegnare, il cui unico scopo è quello di muoversi, assecondare l’assurdità dell’esistenza in una fuga dalla vita che sia più autodistruttiva possibile. Si agitano in un contesto in cui la parola d’ordine è “sballo”, in un brioso susseguirsi di sgozzamenti e decapitazioni splatter slapstick (mi accorgo di aver appena creato un curioso neologismo) e, dato che trovo insopportabilmente ipocrita ogni discorso redentivo sulla faccenda, ho spinto sui tasti di un’accelerazione forsennata, di una liberazione da ogni freno, fino ad arrivare all’omicidio, al trionfo del sangue. Che però ho inteso in chiave sarcastica e smascherante, alla faccia di ogni farisaico divieto del tipo “non bere”, “non drogarti”, “non fare questo”, “non fare quello”.
Siccome il tuo editore, la Leone Edizioni, ha lanciato un progetto di crowdfunding in occasione della pubblicazione del tuo libro, che va quindi acquistato dal pubblico prima della sua uscita affinché venga poi stampato, ti vorrei chiedere di lanciare un appello ai nostri lettori. Spiega loro perché dovrebbero leggere Andrea Campucci e darti fiducia, malgrado tu, come tutti noi qui su Pangea, appartenga alla schiera dei non pubblicizzati, dei poco noti.
Colgo l’occasione, con questa domanda, di ringraziare pubblicamente la Leone Edizioni per avermi dato la possibilità di raggiungere un vasto pubblico, a livello nazionale intendo. Venendo al punto, mi duole constatare che sotto molti aspetti il panorama letterario italiano risulta molto provinciale, legato a schemi piuttosto tradizionali e ingessato sulle classiche logiche dei generi. Io ho deliberatamente rotto con i canoni, non mi riconosco in nessuna corrente, in nessuna poetica. Viceversa, ho tentato la via dell’ibridazione, del crossover, via che mi ha permesso di raggiungere le vette dell’ironia e del maggior distacco possibile dalla materia narrata. Solo così ci si mette al riparo dai generi e dalla loro funzione teleologica. La vita sfugge a ogni tentativo di spiegazione e non vedo perché la scrittura debba creare questi “paradisi artificiali” dove ogni cosa ha il suo posto. Intesa così la letteratura somiglia piuttosto a un oppiaceo ed è per questo che prendo le distanze da tutto ciò che è consolatorio e didattico. Mi interessa piuttosto l’enigmaticità della vita, quello che un tempo si chiamava lo scarto fra il reale e il razionale, e a giudicare dal numero di persone ai miei firmacopie mi vien da pensare che forse sto toccando le corde giuste.
Noto, con profondo dispiacere e sincero disgusto, che sussiste la tendenza tra la massa dei semicolti a fare gli snob verso esordienti e autori meno noti. Al contempo costoro, onde atteggiarsi meglio a ciò che non sono, si trastullano pubblicando foto della loro scrivania – tragicamente vuota, in realtà – con sopra una copia di Viaggio al termine della notte di Céline. Direi che sarebbe anche ora di spiegarglielo, una volta per tutte, che il francese in questione è un autore da tempo istituzionalizzato e che leggerlo non rappresenta per niente una scelta in controtendenza rispetto alla linea dominante. Non credi anche tu che, piuttosto che rispolverare il Viaggio per l’ennesima volta, sarebbe meglio andare a caccia di nuovi inediti Céline?
A questo rispondo che il vero snob sono io, e che non mi farei mai trovare a una presentazione di queste mezze cartucce malate di impotenza (di solito c’è sempre qualche disfunzione sessuale di fronte all’ostentazione di titoli così prevedibili sulle scrivanie di simili topastri). Questi imbecilli, oltre a non sapersi orientare in un autore del calibro di Céline, sono anche profondamente convinti della funzione pedagogica della letteratura, del fatto che i libri abbiano un intento educativo e quant’altro. Per questo dovrebbero essere mandati tutti in galera. Perché, come giustamente osservavi, si fermano alla superficie delle cose. Come non capire, ad esempio, che nei veri libri è proprio il negativo che trionfa, – basti pensare a Madame Bovary, al Vautrin di Balzac, allo Stavrogin di Dostoevskij o semplicemente a Dorian Gray. Non deve stupire, poi, che molta gente non capisca un cazzo di Céline e si atteggi a poser che si legge un “buon libro”, quando invece i libri autentici sono i “cattivi libri”, quelli che puzzano di marcio e che conservano una sana dose di incomunicabilità, quindi inutilità sociale, restando fedeli al sano motto stirneriano “Io decido se sono nel giusto: fuori di me non c’è alcun diritto o giustizia”.
Matteo Fais