
Un Ulisse da rotocalco rosa, viveur sullo yacht. Guido Gozzano interpreta Omero
Poesia
Nicolò Bindi
“Sedurre è morire come realtà e prodursi come gioco illusionistico.”
(J. Baudrillard – Della seduzione)
Prendiamo Ulisse. Questo eroe saturnino un giorno dovette vedersela con le Sirene dalle cui manfrine, tuttavia, fu preventivamente messo in guardia dalla tremenda Circe. Se la dea dai bei riccioli (euplòkamos, così la chiama Omero) avesse taciuto, tenuto per sé il pericoloso segreto, non avremmo mai saputo quali seducenti poteri possedevano quelle diaboliche creature, di quale irresistibile forza era capace il loro canto tanto da attrarre a sé gli incauti marinai di passaggio dinanzi alla loro rocciosa dimora.
Il consiglio di Circe lo conosciamo dal racconto che lo stesso Ulisse fa ad Alcìnoo. Con la fedeltà di colui che dà ascolto ai propri pensieri, Omero lo trascrive nel libro XII dell’Odissea (vv. 39-46): “Alle Sirene prima verrai, che gli uomini / stregano tutti, chi le avvicina. / Chi ignaro approda e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la sposa e piccoli figli, / tornato a casa, festosi l’attorniano, / ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, / sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri / umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano[1].”
L’avvertimento è preciso e il rischio è concreto: cedi al loro canto e non rivedrai più né patria né famiglia. Non ci sono altre opzioni. Circe, però, insinua nella mente dell’eroe anche la perniciosa curiosità del desiderio, del piacere proibito, ma è un piacere ferale perché, goduto senza precauzioni, dice la dea, lo condurrebbe a morte certa: “[…] tu, invece, se ti piacesse ascoltare, / fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani / ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde si attacchino, / sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene.” (vv. 49-52). Ulisse può ascoltare quel canto soltanto se le sue mani e i suoi piedi saranno serrati dalle corde all’albero maestro. Se non lo facesse, se per esempio provasse ad usare uno dei suoi soliti stratagemmi, la sua proverbiale astuzia, la mètis, gli sarebbe inutile e perfino dannosa. Egli, insomma, può avere la facoltà di tutti i sensi ma non la libertà dei movimenti.
I suoi marinai, invece, non legati ad alcuna fune, sono liberi di muoversi ma non di sentire ciò che egli sente: il suono del desiderio. Qui, forse per la prima volta nella storia culturale dell’umanità, il desiderio si fa suono e vibra con le ugole di mostri marini. Il desiderio passa attraverso la voce e ai melismi del canto ma la cera che l’eroe ha compresso negli orecchi dei suoi uomini di mare esclude loro dal piacere perverso intonato dalle maliarde incantatrici. Ulisse inibisce il desiderio dei suoi marinai ostruendo la via d’accesso al senso dell’udito. Cosicché il duro lavoro dei remi li tiene, cauti e sordi, al loro posto. A loro non è dato desiderare.
Ma cosa dice quel canto? Quali profezie contiene? Veramente poco. Anche le aspettative create da Omero sono maggiori dei fatti narrati. Sulla vicenda egli taglia corto senza nemmeno fingere imbarazzo. L’incontro con le Sirene è raccontato in una manciata di versi e si conclude senza nessun colpo di scena. Anzi, si ha l’impressione che Omero voglia archiviare l’argomento delle Sirene per dedicare maggiore spazio ad altro. Per esempio, al successivo incontro di Ulisse, anch’esso potenzialmente catastrofico, con Scilla e Cariddi. Insomma, l’esperienza dell’eroe si situa soltanto al livello di una viva curiosità di ascolto o, detto diversamente, al livello di un’esperienza estetica. La verità sulla seduzione e sul desiderio rimane segretamente custodita da Circe. Soltanto la dea sa, Ulisse, invece, constata senza che tuttavia il segreto sia svelato. Della seduzione egli non conosce che l’esteriorità delle moine, dei gesti studiati, delle parole adescatrici, e del desiderio avverte soltanto l’impeto passionale impedito, però, dai nodi e dalle funi. Omero fa che Ulisse possa conoscere finanche i misteri dell’aldilà, eppure non gli consente di avere accesso a quelli della seduzione e del desiderio.
Il canto delle Sirene, dunque, altro non è se non la promessa di un godimento. Una promessa non mantenuta e un godimento tuttavia ritardato e insoddisfatto. Dopotutto le Sirene intonano canti, melismi, mica parlano. Dalla sua, un incantesimo ha proprio questo: la melodia della voce, la fascinazione della musica, nient’altro. Persino il timore che esse incutono, afferma Jean Starobinski in Le incantatrici, è direttamente proporzionale al loro potenziale erotico: “Le incantatrici sono allora un prodotto del desiderio, e, se appaiono temibili, è perché il desiderio è accompagnato dalla paura della punizione.” Quindi, sembra di capire che questa specie di mostri marini non abbiano mai avuto un linguaggio articolato, la loro – per dirla con un neologismo di Lacan – è lalingua (lalangue), ossia una parola che non è significante, una parola-godimento, anzi, solo godimento, una lingua totalmente svincolata dal linguaggio e dalla significazione, completamente affrancata dalla perversa necessità di dire qualcosa. Ulisse l’ascolta e annega nel mare dell’insignificanza linguistica delle temute ma desiderate incantatrici, si perde nel loro desiderio eppure nulla accade. Tutto rimane ancorato al fenomeno acustico e là si perde, la phoné non assurge a lògos e nemmeno vi ambisce. Il piacere si spegne in un attimo, in quel lasso di tempo che impiegano i marinai a battere “a corpo perduto” i remi in mare e a spingere velocemente la nave oltre le rocce delle Sirene infestate di cadaveri. Con questa luttuosa immagine Omero sigilla nella memoria dell’Occidente un desiderio abortito e impossibile da esaudire, eccitato da voci melliflue ma scongiurato e ammonito dalla vista di resti umani lasciati a marcire sugli scogli.
In Dialettica dell’illuminismo Adorno e Horkheimer intravedono nell’illuminismo di Ulisse (perché di questo si tratta) la rarefazione del rapporto di felicità che legava l’uomo alla natura, alla magia, al mito, e che l’aridità speculativa della tecnica ha successivamente dissolto alienandogli anche il sentimento del piacere e il desiderio. La nave di Ulisse, spinta dalla forza di remi dei marinai, tira dritto e, impassibile ai richiami delle Sirene, segue la rotta indicata da Circe. Ulisse, uomo della tecnica – un illuminista, per intenderci –, partecipa alle lusinghe dei perfidi mostri marini soltanto con l’udito, frapponendo tra sé e loro uno spazio di sicurezza che lo salva da un esito e un destino fatali. La sua è un’esperienza acusmatica, da neofita, com’era quella riservata ai discepoli di Pitagora che del maestro potevano udire soltanto la voce. Il sapere come conoscenza, per loro, era prima di tutto un’esperienza uditiva, poiché il volto del maestro, come testimonia Giamblico in Vita pitagorica, XVII, 72-73, era celato dalla tenda dietro la quale egli impartiva i suoi rigorosi insegnamenti.
Un’analoga situazione, in cui il “sentire” accende un desiderio che non può essere soddisfatto a causa dell’impossibilità di reagire, è quella che vive il personaggio di Lucas Steiner in L’ultimo metrò (1980) di Francois Truffaut[2]. Lucas è un regista ebreo che, per sfuggire alle retate della Gestapo, si nasconde nella cantina del teatro del quale, a causa delle persecuzioni razziali, non può più essere il direttore. Da lì, scavato un buco nel muro che comunica con una botola del palco, oltre a udire le battute della commedia che gli attori provano ogni sera, egli sente soprattutto la voce della sua amata moglie Marion. Il desiderio di averla per sé, quindi, è attivato e costantemente tenuto vivo dal suono di quella voce che attraversa il buco. I suoi movimenti sono circoscritti dall’angusto spazio del rifugio, il suo raggio d’azione è limitato dalle pareti della stamberga in cui si nasconde, ma raggiungere Marion e dare sfogo alla sua passione, come per Ulisse abbandonarsi alle Sirene, significherebbe per Lucas rimetterci la vita. E come ha insegnato Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, vi è sempre una perdita (Verlust) quando di mezzo c’è la soddisfazione del piacere (Lust).
Chi fa di più, però, è Franz Kafka. Nel brevissimo racconto Il silenzio delle Sirene (Das Schweigen der Sirenen, 1917), il praghese spariglia le carte e sconvolge il senso del mito omerico. Il suo sconvolgente programma è chiaro fin dalle prime righe del racconto: “A riprova che mezzi inadeguati, anche infantili, possono servire alla salvezza: Per proteggersi dalle sirene, Ulisse si infilò la cera nelle orecchie e si lasciò legare all’albero maestro”. Meglio di tutti, Kafka ha intuito che, per difendersi e salvarsi dalle Sirene incantatrici, l’unica possibilità di Ulisse – e con lui tutti gli uomini – è quella di rendersi “sordo al desiderio”. Corde e legacci non bastano, egli, come già i suoi marinai, non deve udire. È un sotterfugio, certo, un espediente che Kafka definisce kindisch, cioè puerile, infantile, tuttavia sembra essere l’unica via d’uscita per sottrarsi alla fascinosa seduzione dei mostri marini. Il suo stratagemma sa di ameno passatempo eppure la posta in gioco, come sempre nel mito, è la vita.
Nella riscrittura mitologica di Kafka, il fenomeno acustico della voce è totalmente eliminato. Con ciò egli riduce a zero ogni significante e sopprime anche la più remota possibilità che quel canto, per un attimo o per pura casualità, possa significare qualcosa, consentire, che ne so, la manifestazione di un corpo, il senso di un’esistenza. La sua sordità, come un piombo, fa precipitare questo ambiguo mito nel più sconcertante silenzio invertendo il gioco delle parti. Con questo meschino Ulisse Kafka abbandona l’udito ai suoi trascorsi ancestrali per entrare a piè pari nel campo della vista, nel cosiddetto dominio dell’occhio. Tutto, ancora una volta, si riduce alla famelica cattura dello sguardo, al guardare da lontano, senza tregua, ma immobili e impotenti. Qui siamo di fronte a quell’inversione del paradigma che chiama il silenzio a farsi vista oppure muto e rapace sguardo. (Anche nel mito ovidiano delle Metamorfosi il racconto si muove progressivamente dalla voce nella ninfa Eco alla vista del cacciatore Narciso che soccombe, come si sa, a un desiderio amoroso circolare e, per tanto, impossibile da realizzare). Il mito omerico non poteva negare il piacere benché tendesse a colpevolizzarlo. Invece, l’uomo dei puerili sotterfugi che l’Ulisse di Kafka incarna, eliminata la colpa, azzera anche il piacere.
Ma cosa ne è delle Sirene, di quelle nefaste creature dalla voce pericolosamente seduttiva, dopo che Ulisse si presenta a loro legato e completamente sordo? Kafka lo dice senza lasciare dubbi, orientando il senso del racconto verso una nuova prospettiva: “[…] quando Ulisse arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia perché credevano che solo il silenzio potesse sconfiggere questo avversario, sia perché, alla vista della beatitudine nel volto di Ulisse, che a nient’altro pensava se non a cera e catene, fece loro dimenticare tutto il canto.” Se non fosse per la presenza delle Sirene, questo Ulisse assomiglierebbe a un bambino tutto preso dai suoi giocattoli. Invece, qui, le Sirene si rivelano più astute di come Omero le aveva concepite. Tacendo, esse inscenano con l’eroe un sottile gioco di simulazione: lui finge di ascoltarle, loro simulano il canto. “Dapprima intravide le curve dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, la bocca semiaperta, ma credette che quella fosse una delle arie che svanivano intorno a lui inascoltate.” All’improvviso, tutto diventa mimo, teatro, set cinematografico.
Le Sirene “[…] più belle che mai – si allungarono e si voltarono, lasciarono che i loro raccapriccianti capelli ondeggiassero apertamente al vento e serrarono liberamente i loro artigli sulla roccia. Non volevano più sedurre, volevano solo catturare il bagliore dei grandi occhi di Ulisse il più a lungo possibile.” Ulisse si camuffa da attore, le Sirene sfoggiano la loro arte scenica, i marinai, semplici figuranti, rimangono sullo sfondo. Manca, in questo racconto, addirittura una reale necessità, un sostanziale bisogno; non si percepiscono più né cause né effetti. Nessuno vuole più sedurre, nessuno vuole più essere sedotto, il desiderio è spogliato di ogni preventiva seduzione e infine completamente rimosso. Kafka allestisce quasi un set da film porno in cui il rapporto “cosale” dei corpi, un rapporto “da oggetto a oggetto”, sgretola definitivamente la dialettica della seduzione che prima passava attraverso la voce delle Sirene. Tutti si comportano come se il desiderio fosse il superfluo, l’assente, il grado zero della seduzione, o come se fosse già stato soddisfatto. Se il desiderio reale improvvisamente irrompesse, la scena sarebbe da ripetere e Kafka vuole evitarlo. (Nel porno, come si sa, le scene che culminano nell’orgasmo sono un unicum, un hapax del sesso). Qui è tutto inedia oppure apparenza, gioco di sguardi, trompe-l’oeil, eppure tutto è vero, come vero è l’artificio che Ulisse adotta per dissimulare il suo interesse nei confronti delle maliarde e opporsi al volere degli dèi.
Ciò che rimane costante, però, è l’incanto della messinscena. E allora bisogna scegliere: o si accetta che il desiderio rimanga per sempre ancorato al mito e la seduzione sia prossima al sacrifico e alla morte; oppure bisogna acconsentire che desiderio e seduzione siano proprio questa incantevole illusione che si perpetua nel miraggio, nella simulazione, nel gioco e nel silenzioso rituale e, allo stesso tempo, si facciano istanze dell’inutilità e dello sciupio che sopravvivono al dominio della tecnica, al sapere, alla violenta alterigia del potere.
Vincenzo Liguori
[1] Omero, Odissea, trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989, p. 331.
[2] Del film citato si è ampiamente parlato qui: https://www.pangea.news/il-buco-del-desiderio-considerazioni-su-lultimo-metro-di-francois-truffaut/