03 Marzo 2019

“Tu sei il Minotauro di farfalle, l’abbandono all’impareggiabile”

Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, ora Nathan è bloccato a Tabriz, in frantumi di delirio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui leggete lo scambio per intero. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.

***

Tel Aviv, giugno 1950

Siedo sulla riva, il mare è molto freddo, direi aspro, anima cara. Ti farebbe bene respirare qui. Guariresti prima forse. Indosso il vestito bianco, il mio vestito di ragazza. Sono riuscita a salvarlo, era ancora piegato bene nell’ampio baule della mamma, c’erano ancora le sue gonne in crinolina. Tornai a Praga come una straniera, salii al piano, ho aperto la porta. Il silenzio era uguale e rassicurante. Era pronto ad avermi di nuovo nella sua immobilità domestica. Ma non era più la mia.

Dove siete, miei amati? Mi sono guardata intorno. Dove siete? Supplicai il silenzio, le ombre, l’assedio degli assenti, di assalirmi, finirmi, qualcosa che mi impedisse di sopravvivere al rimpianto, all’indicibile, ai nuovi castighi. Volevo morire, ora che era viva, ora che ero salva, volevo morire. Poi tacqui. Non mi sono lamentata più, ho rispettato il silenzio e le ombre, la mia costanza indottrinata malvolentieri nel silenzio e nelle ombre. Vera, povera Vera, mormorai, come guardando a un’altra, la creatura sommersa, priva della sua stessa anima, l’anima simile a un rogito di espiazioni sbagliate.

Camminavo timorosa, entrando e uscendo dalle stanze con gli scuri accostati, non ero la ragazza di un tempo, la figlia prediletta. Le voci mi inseguivano. Voci lontanissime, agili o veloci e allegre come un brillìo, la luce sulle tende, il tenero sole di una primavera praghese. La voce di mamma. Di Agota. Dove siete?

Mi sono seduta sul canapè della sala a giorno dove papà teneva i suoi libri. Ed erano lì, ancora. Li guardavo con un sorriso intemerato, un sorriso di clemenza persino sulle cose passate, sullo spazio occupato dalle cose passate, sulla loro severa reputazione: consegnano un tempo benevolo, un ricordo profondissimo, un’orazione dentro cui assolversi. Le cose incorruttibili consumano il tempo che si ritira astioso nei suoi intermezzi furiosi o verso indicazioni che mi sono impedite. Dove andrò? Chiedo intorno, all’aria muta, colpevole di intercessioni testarde, noi e il tempo, noi e allora, prima di quella notte. Ti racconto tutto questo, anima cara. Anima cara, scriveva Makar alla sua Valin’ka in Povera gente. Anima cara. Chi mi chiama ancora così?

Ti racconto tutto questo, mentre distendo le mie gambe sulla rena calda in un giorno di giugno, sollevo appena il vestito. Le onde sono timide e lontane. Nel patio del caffè, dove ancora Adam l’ebreo tedesco mi aspetta, ogni pomeriggio alle cinque, c’è un matrimonio. Gli sposi ballano al centro della pista, le sedie a cerchio. Sono ebrei polacchi. Li conosco. Conosco lei, la sposa.

Riparo gli occhi dal sole e guardo nella direzione della sposa che balla sulla terrazza del caffè di Eilat. C’è una atipica dolcezza nella nostalgia degli altri, nella mia trovo sconsideratezza e un rimpianto indomito, cieco. La nostalgia degli altri, immagino piuttosto la nostalgia della sposa di Cracovia. Lei, lei che adesso balla con il vecchio patriarca. È così bella, come tutte le spose, come tutte le giovani donne sfuggite al destino, a un ghetto, una costrizione. Io sono la violata. E non parlerò d’amore, non stavolta, non ne scriverò. Guardo verso le onde timide e lontane adesso. E il pensiero della morte mi attraversa come una consuetudine, la più meschina. Ho fissato un gelido tremore, poi un golem fermo, assiso. Tutto accadeva in un sogno. Era Buchenwald. Era uno dei tanti cadaveri, che bruciavano più in là. L’afrore straziante che bruciava più in là. Così mi arrendo alla rena calda. Chiudo gli occhi con il sole di Eilat sulle guance.

La terrazza è una balera. Suonava una canzone popolare, un mottetto sentimentale. La sposa di Cracovia. Lui è un bel tipo, ha origini ucraine. Tomasz. Lo conosco. Era nella resistenza. Un partigiano. Scuro di capelli. Molto british stranamente. Nell’insieme è irresistibile. La sposa ne è molto gelosa. Sorrido ancora, con il sole di Eilat a consolarmi sopra il mio corpo disteso, arreso come dentro a una preghiera. La musica mi raggiunge, la voce tuonante del patriarca canta con commozione: “za zielona Ukraina, / Zal, zal serce placze, juz cie nigdy nie zobacze/”.

Sono già tutti ubriachi.

Ti aspetti che ti scriva del mio amore?

Dovrei semplicemente darmi per vinta. Concludeva Makar di Povera gente. Sì presumo sia una soluzione. Semplicemente, anima cara.
Entrai nella mia camera da ragazza. Ho trovato una lettera di Petr. Era irruente. Voleva avermi, prima del matrimonio. Le sue mani non stavano mai ferme. La sua virilità era un pegno d’amore, un’evidenza d’amore. Ci siamo persi.

Lo amavo?

Ma cos’è l’amore? Dimmi, anima cara, cos’è l’amore? Se ti basta tacere, dimenticarmi, anche solo per qualche ora, non avere urgenza di me, delle mie parole?

Sono molto confusa. Direi ancor meglio: delusa.

Non sono in grado di sollevarti dalle tue sofferenze, oggi. Oggi è un giorno lunghissimo e fastidioso per me, qui, malgrado il sole di Eilat sulle mie guance e il matrimonio della sposa di Cracovia.

Son convinta di arrivare alla fine dei miei giorni con la fretta e l’impazienza della confinata, sopravvissuta a tutte le ignominie, cercando il desiderio e la vocazione altrui. Essere amata, l’assillo, pedante. Mi tortura.

Preferisco dormire, per sempre. Dormire. Compiango me stessa, mi sono perfezionata nella condanna speculare, io allo specchio. Mi guardo con la nostalgia di me stessa, non la medesima che preveda la mestizia degli altri. La mia feroce nostalgia. Vera, sussurro. Ti riconosci?

Su, stella dorata, sì sì, stella dorata. Così mi chiamava la mia mamma.

Vera

***

Luglio 1950 (dove sono, dove siamo?)

Il sangue è un invito – qualcosa che ha una cifra – declina la latitudine dell’anima – poi, mi bendarono – ma anche l’oscurità quel giorno fu presa in ostaggio – la luce accadde quando qualcuno segò i polmoni al cielo, con un coltello, come fosse un bue – perché ogni cosa ha una natura animale – e la luce, come se fosse liquido pleurico che gocciolava, era azzurra. Non so dirti i volti – chi ha fede in un’unica cosa ha sguardi lignei, allineati – ma certamente un uomo dal cappello rosso e dalla giacca rubata a un miliziano russo, un rivoluzionario, ti recapiterà questa lettera, nominandoti, degnandoti di un titolo onorifico, perché ho detto che obbedisco a una regina a Tel Aviv…

Improvvisamente la tenda implose – si dicono eredi dei Sarmati e pensano che il sangue sia il sussurro dell’anima – la testa del siberiano scoppiò e fu come se non fosse mai esistito – le grandi tigri tatuate sulle braccia diventarono viola, scapparono sotto alla branda – la benda, all’inizio, mi sembrò una lama, pensai, come nelle vaste esecuzioni ottomane, che volessero tagliarmi il naso e cavarmi gli occhi, rubare lo sguardo e associarsi il respiro – le mitraglie come un incensiere – schiocchi di proiettili che benedicono teste e schiene – le vertebre crollano come dischi di ferro impilati su suggerimento dell’avidità. Si soffre solo al rallentatore e sarebbe innaturale morire perché qualcuno pronuncia la parola segreta, che tiene in vita, che è nascosta forse nel midollo, forse a un attimo dall’iride – ma ciascuno ha in serbo questa parola segreta che si rivela soltanto in punto di morte, è il segnale che permette all’anima di toccarci gli occhi, di sgretolare la lingua.

Agli uomini sparavano in faccia, perché nell’aldilà restassero sconosciuti, disinnescati alla vendetta – quanto alle donne – in quell’ospedale erano dieci, Maria mi curava con implacabile dolcezza, con mani bellissime, cresciute sui polsi, forse, dopo aver letto le virtù di Santa Caterina – non le violavano – sparavano al petto, qualcuno le sorreggeva, come singole pietà femminili, esperte del morire. Uno raccoglieva le donne in una cisterna, diversi cominciavano a lavorare con i coltelli – i coltelli che vagano nell’aria argentei come pesci – sezionavano i tagli del corpo, scostavano la carne dall’osso – i quarti erano poi intrisi di sale – infine, nel cortile, dove qualche ora prima giocavano i bambini e ciascuno confessava il proprio ozio all’astro, i pezzi delle donne venivano cotti su una brace – la carne urla un’ultima volta sul ferro bollente – e spartiti tra i Sarmati. Ricordo i denti sregolati e tomisti, che alienano il male all’irrilevante, a qualcosa di infedele. Si mangiavano le donne di Tabriz, come avrebbero fatto, secondo la leggenda, gli Unni, secoli fa – e qui la violenza è compiuta con pallore, è una convenienza consapevole, una convalescenza del regno.

*

Ogni volta che la traiettoria della mia vita converge su di te, qualcosa la sbilancia, la devia, perché il magnetismo è equivalente e si annulla. A volte penso che devo morire per stare continuamente tra le tue mani – la morte è un bacio prolungato. Non so se i Sarmati abbiano conquistato Tabriz né di quanta terra si nutra il loro concetto di civiltà o da cosa sia ispirata la loro furia – sembrano un popolo risorto ora dagli abissi di ieri per verificare un futuro di indecenze e di ipnosi.

Avevo tre carte stellari vicino al letto, nell’ospedale: la prima, disegnata in Bulgaria, raffigura un cosmo a cieli concentrici, una spirale stellare, sormontata da un satiro – appartiene alla setta dei Bogomili – la seconda, greca, inventata dai sofisti, ipotizza il dio come una donna, eretta, dalle cui intimità sgorgano le costellazioni, lei ride ed è dalla risata di gioia che sfocia il giorno, è dalla risata di scherno che si fabbrica la notte. La terza è una mappa islamica, me l’ha venduta il rabbino di cui ti ho scritto: in questo caso le costellazioni sono raffigurate come lettere arabe e in qualunque modo le leggi il risultato è uno dei 99 nomi che determinano il Dio – non c’è figura o dipinto, ma alfabeto e cifra. Mi considerano un profeta – io so che chi agisce allineandosi alla storia, allenandosi a modificare la natura delle cose è già morto, contorto nell’oblio – io so che scegliere di dare la morte è uccidersi, perché la morte non ammette complici o esecutori. Mi chiedono di guardare le stelle e di indovinare l’esito di una azione di guerra, la natura di un nemico, la liceità di uno sposalizio. Ammetto di non aver mai visto stelle sgargianti come in questa zona di mondo – più si fertilizza la terra con il sangue, probabilmente, più esse brillano. Di sera avanzo tra le tende con un secchio pieno d’acqua, lo sollevo, le stelle si riflettono – ed è come se potessi fermarle e fargli il calco – l’acqua s’infiamma e le stelle brulicano come pezzi di pane. Non sopporto il loro splendore – mi tortura sempre, è un acquazzone di sassi il pianto di una donna.

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Luglio 1950 (senza un luogo, senza tempo)

Amo la fermezza con cui custodisci il tuo mondo – amo la solitudine con cui cuci una vita e una risonanza alle tue compagne, come chi mette gli amuleti migliori nello zaino di una sorella che s’inoltra nella piramide – amo il piacere obliquo che offri a chiunque ti guarda – tu significhi i dettagli, io sono un sonaglio nel ventre di una storia che non mi appartiene – tu sei quella che raccoglie, io colui che si astrae; eppure, sono io l’uomo carnale e tu la disincagliata, sei il mio desiderio senza sponde – tu sei al centro del mio labirinto, il Minotauro di farfalle – la cosa che brilla.

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Calano a strappi da questa collina alle città, con i loro elmi ispirati e fucili che rispondono a una notte a venire. Corrispondono alle mie profezie dedotte dall’acqua – un assurdo che dilata il tempo a rituale del caos – mi ritengono sacro e traggono aforismi dalle carte del cielo. Dovrei sentirmi responsabile delle loro efferatezze – il loro desiderio di rivalsa, la medaglia di una conquista, ambire alla morte perorando la vita – mi inteneriscono.

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Abbiamo offerto un calco dei nostri corpi al caldo sagace di Praga – abbiamo barattato il desiderio con l’attesa – rischiato una fratellanza che frattura ogni fattura umana.

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Non permettono che mi nutra da solo – una bambina ha il compito di darmi il cibo – quando cresceranno le profezie inefficaci qualcuno, semplicemente, mi succhierà gli occhi, mi taglierà la gola, pronuncerà parole di perdono. Anche i bambini che mi hanno cibato, è ovvio, saranno una primizia per gli sciacalli della sera.

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A volte il paesaggio ha una bellezza così cruda che ogni gesto umano sembra eccessivo, anche radunare l’acqua – perché non lasciare l’abito della crescita alle cose, senza interferenza? Si ama sempre dall’ordalia di una separazione.

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Recuperati da un urlo anteriore, questi uomini sono puro corpo, si lasciano agire dalla necessità dello scontro – qualcosa di simile all’amare, abbandono all’impareggiabile.

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Sono prigioniero di una sacralità che altri, sconosciuti, mi addebitano – dovrai rivelarmi – tu non hai rivelazioni, sei la serratura che ripara dal maremoto degli angeli.

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Non restituire nulla – neanche un sorriso, neppure l’attenzione – a chi ti consegnerà questa lettera. L’istruzione è che si uccida – per i Sarmati l’uomo sacro non può recintarsi in una vita terrena, non può essere interpretato con una manciata di parole.

Nathan

Gruppo MAGOG