Secondo il mito Clizia è una ninfa che si innamora del Sole, tanto che “il suo amore per il Sole era sfrenato”. La passione verso l’entità irraggiungibile strugge Clizia finché la ninfa, come narra Ovidio nelle “Metamorfosi”, si trasforma in girasole, il fiore che si muove guardando l’astro che nessun occhio umano può vincere né sostenere. “Malgrado una radice la trattenga, sempre si volge lei verso il suo Sole e pur così mutata gli serba amore”. Clizia, figura terrena dell’amore solare, sfrontato e immutato, viene ripresa da Eugenio Montale, in una delle sue liriche più belle, “La primavera hitleriana”: “Guarda ancora/ in alto, Clizia, è la tua sorte, tu/ che il non mutato amor mutata serbi”. Questa è la ragione del titolo che abbiamo assegnato a questa rubrica, ‘Clizia’: la bellezza in ogni sua variante, la solarità di un viso, ci portano al concetto di un amore immutabile, che non cambia mentre ogni forma, preda del divenire, morsa dal tempo, inevitabilmente muta. L’amore che non muta è ciò che permette all’uomo, tramite la visione di una forma vana, di vincere la morte.
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C’è una innocenza, nel cuore della bellezza, il genio di ciò che è puro, che sbalordisce, che ipnotizza. Di Elisa sorprende l’istante del sorriso, il trionfo degli occhi che sillabano la spina dorsale e ti collocano nella gioia. Si dice “determinata, dolce, romantica, solare”, Elisa, in una sorta di climax della luce, le montagne russe della meraviglia. Non è ingenua, Elisa – “sono buona ma non mi faccio mettere i piedi in testa” – e sa che “la bellezza è il primo biglietto da visita”, per questo “studio per diventare estetista”. La bellezza – che non mente, è la stanza dell’innocenza – è tutt’uno con il carattere; estetica, diceva il grande poeta Iosif Brodskij, è gemella dell’etica, il bello è per sua natura un riflesso del bene, una riflessione su ciò che è buono. Cesare Pavese, tra i grandi intellettuali e poeti del secolo scorso, si è domandato sull’innocenza e sulla violenza, sul senso della vita, sul ruolo dell’uomo nel mondo, sui risvolti – e i risvegli – profondi della bellezza. In una poesia, tratta dalla raccolta postuma Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Einaudi, 1951), Pavese, con parole scarne come rami, cerca di dire l’assolutezza dell’amore.
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
Proprio in quell’indicibile – “che nessuno ha mai detto” – in quell’attitudine all’inatteso – “tu non attendi nulla” – in quel fremito – “tu tremi” – è l’innocenza del bello.
*Le fotografie sono di Antonio Tonti
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