Nel ritratto, il comandante Sir John Franklin, già governatore della Tasmania e tra i fondatori della Royal Geographical Society, ha il braccio destro sul fianco, lo sguardo audace, che fissa qualcosa, oltre la coltre umana, forse le metropoli degli angeli, e due torrioni di capelli, intorno alla crapa pelata, che sembrano fiamme. Franklin, un coraggio pari alla sua sfortuna, è quello che sull’Erebus e sulla Terror – due navi dal nome significativamente sinistro – portò una falange di marinai e di avventurieri, nel 1845, tra le mascelle dell’inferno artico. Voleva scoprire il mitico ‘Passaggio a nord-ovest’, l’El Dorado degli esploratori, e morì, in quell’orrore di ghiaccio, insieme ai suoi. Una statua sommariamente devota lo celebra, nel piccolo borgo natale di Spilsby, nel Lincolnshire. Jim Shepard, classe 1956, non verrebbe bene né in un ritratto né in un busto statuario. Baffetti, occhiali, berretto da baseball, camicia stinta, pare un personaggio dei Simpson. Jim non ha bisogno di dimostrare nulla. Non ha una biografia ‘eroica’, non ha verità in tasca con cui imbottire il cervello dei suoi lettori, non ha una cartucciera di polemiche pronte all’uso. Questo uomo qualunque, la cui unica preoccupazione è scrivere i più bei racconti mai scritti su suolo americano, è il biografo dell’impresa catastrofica di Sir John Franklin. Nel racconto più potente de Il mondo che verrà, raccolta accolta negli Usa come un totem della letteratura contemporanea, ora pubblicata da Bompiani (pp.272, euro 18,00), Hms Terror, Shepard s’inventa il diario di Edward Little, esploratore di genio (“Compito della spedizione è inoltre quello di correggere e rettificare le conoscenze geografiche altamente carenti in materia di regioni artiche”), carattere predisposto alla solitudine (“non sono mai stato adatto alla compagnia degli uomini”), prono all’acutezza (“Ieri abbiamo salutato il sole per l’ultima volta. È tramontato subito dopo essere sorto, in una tagliente riga rossa che è diventata un breve bagliore verde e poi buio. Tutto attorno a noi il cielo è un muro nero che arriva fino all’orizzonte”). La scrittura di Shepard è come il muso del suo autore. Passa inosservata. Shepard, voglio dire, non sta a inventarsi uno ‘stile’, non ha bisogno di mostrare gli attributi estetici. Veste il racconto con la lingua che conviene. Così, nello stesso libro, passiamo da racconti ‘realisti’ (Consigli di sicurezza per una vita in solitudine) a sbaffate liriche (Canzone d’amore cretese, con incipit scintillante: “immagina di far parte della civiltà minoica e di bighellonare lungo una spiaggia nella parte nord di Creta attorno al 1600 a.C.) a una magistrale divagazione sulla vita dei fratelli Montgolfier (L’oceano d’aria). Nonostante il racconto esemplare sia quello che dona il titolo alla raccolta, un amore dai lividi tratti faulkneriani tra due donne desolatamente maritate nei desolati States dell’Ottocento, con epigrafe poetica (“Ho immaginato di continuare a scrivere in questo diario, come se la vita fosse questa, come se la vita non fosse da un’altra parte”), il racconto più bello, più complesso, più duro è quello ‘artico’. Shepard, che si è studiato tonnellate di libri (leggete la lista in fondo al libro), con pochi precedenti alle spalle (l’Edgar Poe di Gordon Pym, il William Golding di Riti di passaggio), fa dell’Artico una specie di metafora cruenta della scrittura. I ghiacci hanno gli occhi albini di Moby Dick e la spietata ferocia di un dio carnivoro. Come un sonnambulo, l’esploratore, allucinato dal bianco (“la presenza di così tanto ghiaccio invita alla malinconia”), scopre il cannibalismo (“la carne delle braccia e delle gambe è stata tagliata a striscioline e buttata in un pentolone… abbiamo riguadagnato le forze… e nessuno di noi riesce a guardare l’altro negli occhi”), muore. Ma perpetua la pratica della scrittura, sempre, pure da martoriato, come se lì, rammendato in parole, fosse tutto l’uomo.
Intanto, perché scrivere? Quando è sorta in lei la certezza che la scrittura era vocazione e vita?
“Penso di aver cominciato a scrivere perché, come molti scrittori che conosco, sono insoddisfatto dai consueti canali di comunicazione. Scrivere – che significa ridefinire continuamente e rivedere i propri pensieri – mi permette di immaginare una versione ideale di me stesso: intelligenza labirintica, disposizione a impegnarsi nel duro lavoro di dare senso al mondo, generosità verso la mia compassione”.
Nelle pagine finali de Il mondo che verrà è inserita una fitta bibliografia di libri di storia. Qual è la relazione tra la sua scrittura e la Storia?
“Sono sempre stato colpito dal fatto che molti lettori leggano romanzi e racconti non solo per conoscere il cuore umano, ma per capire la natura concreta di mondi molto particolari: per imparare, in altre parole, qualcosa intorno alla scienza, alla storia, e a un numero infinito di altre cose. La storia mi pare un espediente meraviglioso per arrivare alla politica, in modo più sottile, ed è un modo per ricordarci che gli esseri umani hanno la tendenza a ripetere sempre gli stessi errori”.
Nelle storie de Il mondo che verrà lei sterza spesso il proprio stile, lo cambia a seconda di ciò che racconta. Penso a storie come HMS Terror, Canzone d’amore cretese e Intimità in cui lei passa sinuosamente dal diario fittizio al frammento lirico al racconto realistico. Qual è la prima ispirazione per un racconto, attraverso quali fasi edifica il testo?
“Molte delle mie storie nascono dopo aver letto qualcosa di arcano e di enigmatico, dalla scienza o dalla storia; molto spesso di catastrofico. Leggo questo genere di cose nella speranza di diventare un essere umano migliore. Ogni tanto la mia attenzione viene imprigionata da un particolare dilemma umano, che resta con me, si salda in me, e allora il processo dell’immaginazione comincia. A questo punto, inizio a leggere altre cose sull’argomento, per vedere se davvero ho voglia e intensità per scriverne”.
Chi sono i suoi maestri, se ce ne sono stati? Quali scrittori ama di più?
“Tra gli scrittori che mi hanno ispirato di più, dico Vladimir Nabokov, per lo spettacolare lirismo della sua prosa e l’intensità del suo amore per il mondo fisico, per la sua dedizione alla tenerezza; poi Flannery O’Connor, per il nitore della sua fede che la grazia è possibile anche nel territorio posseduto dal diavolo; Ernest Hemingway, per le sue lezioni sull’eloquenza della compressione e dell’elisione; Marguerite Yourcenar, perché ha dimostrato cosa è in grado di fare la ricchezza della nostra immaginazione empatica”.
Esiste la formula segreta per scrivere il racconto perfetto? Soprattutto, lo domando a lei che per mestiere insegna scrittura creativa, è possibile insegnare a scrivere?
“Dico ai miei studenti che la capacità di scrivere bene è un dono, che nessun insegnante può donarti quel dono, che un buon insegnante può accelerare drasticamente lo sviluppo di ciascuno. E che studiare la scrittura ti renderà un lettore migliore, e che questo mondo, a questo punto, ha davvero bisogno di lettori migliori”.
Che legame c’è tra la sua autobiografia e le storie che racconta?
“Ogni storia che scrivo è autobiografica, nel senso che è legata a un’urgenza della mia vita interiore. Tuttavia, gli eventi che racconto nelle storie sono per lo più inventati”.
Un giudizio sulla letteratura americana contemporanea.
“La buona notizia è che la letteratura americana contemporanea è piena di scrittori eccellenti, la pessima notizia è che sempre meno americani leggono letteratura contemporanea”.
Che rapporto deve esserci tra scrittura e politica, tra estetica ed etica? Esempio concreto: che idea ha del Presidente Trump?
“Donald Trump è una catastrofe per l’America e per il pianeta. Quanto sia grande questa catastrofe, è ancora da capire. Penso che ogni scrittura seria sia infine scrittura ‘politica’”.
Le interessa la letteratura italiana? Cosa legge?
“Amo molto gli scrittori italiani che amano molti scrittori americani: Elena Ferrante e Italo Calvino, per dire (Le città invisibili hanno influenzato enormemente il mio lavoro). Mi piacciono i libri di Cesare Pavese. E penso che Il gattopardo sia uno dei romanzi più grandi che abbia mai letto”.
Ma… alla fine… ancora… a cosa serve leggere?
“Leggere letteratura dilata la nostra immaginazione empatica. E questo rende il mondo un posto migliore”.