Egli sapeva. Danni sapeva che fare poesia significa fare lo scalpo all’angelo. Così, mentre io giocavo a dadi con i verticali, prendevo per leggerezza la vertigine, lui, già, rodeva gli stinchi all’arcangelo, fregava il fegato a Raffaele, bucava gli occhi difformi di Gabriele, segava le ali a Michele. “Nerval fu trovato una notte in Rue de la Vieille Lanterne appeso a una corda, Mishima si sventrò davanti a una telecamera sopra il tetto di un grattacielo, Pavese, all’hotel Roma, prima di addormentarsi, perdonò tutti e a tutti chiese perdono…”: fu un testamento sul gergo della poesia, nel gorgo della scrittura, quello redatto, nel salino meridiano, da Danni Antonello, era il 2004, per l’antologia Oltre il tempo, la ‘banda’ di poeti tirata su tra livori, vortici e cristalli da Gian Ruggero Manzoni. Parlammo di francesi, mi istruì su Jean Genet, sul verbo plastico di Carmelo Bene, decrittando la logistica lirica di Georg Trakl, Danni. Condividemmo qualche dolore – io lo lustravo come avorio, lui lo smerciava nel fango – poi la vita ci rapì. Fu rapinoso perfino il ritorno: io in vagabondaggio giornalistico, lui a distribuire quel sapere livido e acido, alla libreria Scaramouche di Macerata, a fare ciò che sapeva, come pochi, proporre libri che sconfinano nell’assurdo, perciò necessari, con la casa editrice – che incorpora il suo nome – Giometti & Antonello. Muore un anno fa, Danni sigillando un’era bastarda, dove i visi degli uomini hanno fattezza di iena e il poeta agonizza – e non c’è pietà negli sguardi di vetro dei mercanti, nella porcilaia politica. Sapeva già tutto, ad ogni modo, con una consapevolezza allucinata, Danni, nel 2004, intitolando quell’antico testamento L’ingratitudine della scrittura. Si è grati allo scrivere perché la scrittura avviene nell’ingrato – lo celebra; si raffina sulla grata dell’incomprensione. Sapeva, Danni, che scrivere è avventarsi verso la morte, avviarsi al dialogo con gli andati, dedicarsi a una dedizione brutale. Si diventa limpidi a colpi d’ascia, d’altronde. L’unico modo di baciare il poeta è riassemblarne il corpo lirico, ora. Le parole di Danni hanno valore di antidoto, veleno desunto dal cobra per mutare il dito in tuono, il male in benevola malia: non lasciamole anticare nella dimenticanza. Dal quell’abissale 2004, ad esempio, proviene questo testo, di fiamma e ulcera. Una lettera dedicata al grande orientalista Gianroberto Scarcia (1933-2018), morto una manciata di mesi fa, in luglio. In origine – compresa di testo poetico –, è pubblica sul numero di Transoxiana, “L’Onagro Maestro”, dedicato a una “miscellanea di fuochi accesi per Gianroberto Scarcia”. In questo caso, questo è un falò per tenere acceso il cuore di Danni – lui, con spettacolare genio, si agita tra noi, ovunque. A noi non resta che l’impotenza dell’ira, la gioia, energumena, a lui donata. (Davide Brullo)
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Caro Maestro,
prometto, non seguirò più l’ombra di troppa luce che fino a ieri incontravo qualsiasi strada prendessi. Oggi conosco il miele che fu veleno, oggi uccido mio padre per serbare di lui soltanto il seme che mi generò e non il nome che mi ha dato per avermi suo. Abbandono la certezza del conosciuto e del sentiero battuto, parto come l’altro dalle mani grandi e callose per l’Abissinia, in cerca di verginità da stroncare con la mannaia; ho smesso di credere, mio solo credo sarà l’errare.
Mi do alla fame e all’insidia della palude che lei un giorno mi ha detto esistere in quel luogo sommerso non ancora segnato in alcuna mappa. Forse troverò lì la pietra che rende l’uomo illuso d’eternità. Forse un alchimista, o forse un cialtrone o un merlino ingannatore l’hanno posata lì, in attesa che un rinnegato nella sua fuga scoprisse in un sasso l’ambito segreto che scoglie la leggerezza piombata del dubbio. Riuscirò a trasformare il piombo in oro e quell’oro lo getterò dal ponte di qualche nave all’oblio dell’insignificanza che il fondo del mare custodisce. Nessuno arriverà fin lì a raccogliere il prodigio che era nelle mie mani, le sue mani, l’arte del fabbricante di nuvole, il cielo capovolto e rifiutato, gettato in fondo al mare. Hanno detto che qualcuno al tempo dei miracoli camminava sopra le acque e parlava di padri onnipotenti, noi non abbiamo creduto; al martello di Vulcano, alle sue fiamme e agli schiavi che le fabbricavano, a loro sì, forse a loro abbiamo creduto. E abbiamo sbagliato. Così come oggi io rinnego la verità che lei mi ha mostrato, nessuna verità nessuna certezza avremmo dovuto curare.
Le piaghe ai piedi dei viandanti condannati all’esilio, l’impossibilità di qualunque redenzione, l’incarnata mendicità del poeta che canta per non morire, e canta per morire, l’incuranza del cielo immobile guardone, niente di più, tutto il nostro niente.
Danni Antonello