“…e i sogni sgranano gli occhi”. Sull’onnipotente poesia di Hugo von Hofmannsthal
Poesia
Gio Batta Bucciol
Me ne è venuta voglia e ho letto le poesie del Premio Nobel: Poesia dal silenzio, di Tomas Tranströmer, per Crocetti Editore. Ho letto le poesie di Tranströmer prima che assegnassero il Nobel alla poetessa Louise Glück. In Italia, l’impressione è stata questa, fino al sette ottobre scorso erano stati quei pochi che si fa prima a definire nessuno a aver espresso l’esigenza di parlare, di scrivere delle poesie di Louise Glück. Io non le conoscevo. Negli ultimi giorni sono numerosi gli articoli sulla poesia della Glück, premio Nobel del 2020. Articoli recenti su Tranströmer, premio Nobel 2011, sono di nuovo quei pochi che si fa prima a definire nessuno. Giusto qualcuno nel 2015, quando è morto.
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Ho spavento e come una forma di rancore verso le antologie poetiche. La raccolta Crocetti del 2011 copre la produzione poetica di Tranströmer dal 1954 (17 Dikter) al 1996 (Sorgegondolen), quarantadue anni di poesia in poco più di cinquanta componimenti, cinquantadue se ho contato bene. Philippe Daverio, in una delle interviste di repertorio mandate in onda quando era appena morto, diceva all’incirca: in un museo, in una mostra, non si dovrebbe andare per vedere tutti i quadri, percorrendolo a passo di corsa, per non rischiare di perdersene qualcuno prima della chiusura o, che so, per evitarsi un dolore ai piedi. Ci si va per un quadro, al massimo per due quadri, e davanti a quei quadri si resta, li si guarda, se ne fa la conoscenza. Aggiungo io: per conoscere qualcuno non basta stringergli la mano, se stringi la mano a una folla di persone non è che quella folla di persone puoi dire di averla conosciuta. Stringi la mano, ti presenti a uno o due persone, cerchi di appartarti, le guardi e ti fai guardare, parli e le ascolti. Vale a dire: si sta davanti a un quadro come davanti a una poesia. Come posizione vale tantissimo per le poesie di Tranströmer. Non si entra in una antologia poetica, come neppure in una raccolta poetica completa, per leggere le poesie una dietro l’altra, neanche fosse: tolto il dente tolto il dolore. Si sta con una poesia per un paio d’ore, ce la si fa bastare per un giorno, per leggerne un’altra si può aspettare il giorno dopo o anche più di uno. Si impara a aspettare e a desiderare. A stare, e a pensare. A sentire e a riflettere su quel che si è sentito, sul cosa ce l’ha fatto sentire. Ecco come può essere l’esperienza di una poesia. Per questo la poesia è del tutto fuori corso economicamente e quindi storicamente. La cultura, c’è stato un tempo in cui s’immaginava fosse una forza identica e contraria a quella dell’economia e quindi della storia. O la cultura sta fallendo la sua ragione d’essere o semplicemente ci eravamo sbagliati sul suo conto.
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Tranströmer, che è del 1931, nella traduzione a cura di Maria Cristina Lombardi non può avere più di ventitré anni quando scrive i versi “(…) si sentono / scalpitare le costellazioni (…)” e non ne può avere più di sessantacinque quando pubblica i versi “Nello stesso sogno una bambina neonata / si esprimeva a frasi compiute”. Come può essere lo stesso poeta a aver scritto queste poesie ora che ci hanno detto chiaramente che ogni sette anni il corpo ha praticamente ricambiato tutte le cellule e che dunque passati i setti anni materialmente non c’è niente che accomuni l’uomo di prima con l’uomo di dopo? Come sarebbe facile dire: Tranströmer è passato dalla grande suggestione del totalmente altro e fuori da sé, rappresentato dalle costellazioni, dal loro scalpitare, alla più grande suggestione dell’interiorità totale quale è quella del sogno, della sua incondivisibilità massima: cosa c’è di più esclusivo e escludente di un sogno? Nessuno potrà mai vedere la stessa bambina neonata esprimersi in frasi compiute che ho sognato io. Le costellazioni, quelle sono di tutti. In quanti però hanno mai visto le costellazioni scalpitare? In tempi di blockbuster dell’horror che pesca a mani basse nel bric-à-brac del freudismo deteriore un bambino neonato esprimersi in frasi compiute lo si è visto persino in Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988, regista Zemeckis). Invece non s’è riuscito a sentire lo scalpitare delle costellazioni neppure in The Tree of life (2011, regista Malick; c’era il volume troppo alto di Lacrimosa).
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Io non credo al poeta-da-giovane e al-poeta-da-vecchio. Esiste ogni volta il poeta della sua poesia, se è un bravo poeta lo è del suo libro di poesia, scritto come un’unica, grande, poesia. Se esiste il poeta di tutta la sua opera poetica a un certo punto avrà smesso di essere un poeta e sarà diventato il manierista di sé stesso. All’interno della mostra di poesie che è Poesia dal silenzio ci sono opere di molti poeti accomunati dal fatto di chiamarsi tutti Tomas Tranströmer. Non può avere più di ventitré anni il poeta Tranströmer che in Epilogo, dalla raccolta 17 Poesie, scrive i versi “(…) Passando / per la strada della stalla, si sente da là / lo scalpitío del cavallo malato”. In lui si può ancora riconoscere lo stesso poeta ventitreenne che nella poesia Temporale della stessa raccolta aveva sentito scalpitare le costellazioni, e due sono le deduzioni che lascia: o le costellazioni sono formate da cavalli malati o passando per la strada nella stalla quello che lui credeva fosse lo scalpitío di un cavallo malato era in realtà quello di una costellazione. Il poeta Tranströmer di Segreti sulla riva (1958) scrive il verso “Un vecchio edificio si è sparato alle tempie”, nella poesia Formulari di viaggio (Dai Balcani ’55), ma non si riesce a sapere molto altro di lui, siamo già nel 1962, adesso c’è il poeta Tranströmer di Il cielo incompiuto (un titolo di raccolta che è già un bellissimo verso) il quale nella poesia L’albero e il cielo scrive il verso “Un albero vaga nella pioggia” e poco più avanti i due versi “(…) Prende vita dalla pioggia / come un merlo nel frutteto”. Questo Tranströmer che non può avere più di trentun anni sceglie come primo verso della poesia Il suono, nella stessa raccolta, le parole “E il merlo soffiò sulle ossa dei morti col suo canto”. E in un verso di Una notte d’inverno c’è l’indizio del poeta che fu in 17 Poesie, quando scrive: “E la casa avverte la sua costellazione di chiodi”. Il poeta Tranströmer del 1966, non più di trentacinque anni, in Echi e tracce, nella poesia Uccelli mattutini, conserva l’immagine del merlo: “Da una porta sul retro del paesaggio / arriva la gazza / bianca e nera. L’uccello dell’Intero. / E il merlo si muove a zig-zag / finché tutto diventa un disegno a carboncino / tranne i vestiti bianchi sul filo del bucato:/ un coro di Palestrina”. Però gli ultimi versi della stessa poesia sono invece dedicati al distacco, all’allontanamento da sé necessario per avvicinarsi alla parola perché dica quel che va detto, indipendentemente da chi sia il poeta che lo dice: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce / mentre io mi ritiro”.
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Questo gioco, lo interrompo subito, è quello del lettore che sta al gioco del curatore. La necessità di creare il nesso, cioè il senso, all’interno dei componimenti selezionati, per non precipitare negli spazi spaventosi aperti dalla poesia, come la voragine aperta dal poeta Tranströmer, non più che trentanovenne, che nella raccolta Colui che vede nel buio, nella poesia Preludi, scrive i versi “Il futuro: un esercito di case vuote / che avanzano nel nevischio”.
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Mi sono fatto l’idea, epidermica e mentale, che mi sarebbe piaciuto poter conoscere il poeta Tranströmer del 1973, il poeta non più che quarantaduenne che scrive in Ad amici oltre confine i versi “Ora la lettera è in mano al censore. Egli accende la lampada. / Le mie parole scattano alla luce come scimmie su una grata, / si scuotono, si fermano e mostrano i denti!”. Mi piacciono questi versi lunghi, mi piace la scena che rivelano e sbeffeggiano, sento qualcosa di adulto e agguerrito e addolorato e amaro nel poeta Tranströmer del 1972 ma nell’antologia Poesia dal silenzio della raccolta Fuori dai sentieri non c’è altro. Tocca al poeta dei Mari Baltici che, forse per ripicca, per risentimento verso la conoscenza negatami del poeta del 1973, sia quel che sia, m’è piaciuto meno di tutti gli altri poeti. Certo, ci sono quei versi, “(…) nel bosco più / profondo si è fuori in mare aperto”, che mi sembrano dicano in maniera sintetica e esatta, poetica, quel che io ho provato a dire all’inizio, tra le costellazioni che sembrano esterne rispetto al sogno che è interno mentre non c’è nulla di più interno di una costellazione che si è sentita scalpitare, ma a questo punto voglio parlare del poeta Tranströmer del 1978, il poeta de La barriera della verità, che in Punto di passaggio scrive i versi “Intorno a me sprigiona tutta la sua energia, / la strada che nulla ricorda e nulla vuole”.
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Come sono diversi tra loro i poeti Tranströmer fin qui osservati nel Museo Tranströmer della Poesia, però va riconosciuto come ciascuno di loro non scriva soltanto poesie belle se prese una a una, ma versi belli se presi a uno a uno, condensazioni di immagine e significato che lasciano scossi e ammirati. È il 1983, esce la raccolta La piazza selvaggia, il poeta autore della raccolta, Tomas Tranströmer non più che cinquantaduenne, pubblica una poesia che vale come un manifesto di poetica. È la poesia Dal marzo ’79, i cui due ultimi versi sono “Scopro orme di capriolo sulla neve./ Lingua senza parole”. Questa potrebbe essere la Gioconda di Tranströmer. Quella davanti alla quale trovi ressa e che ti mette voglia di conoscere il guardiano del Museo, che ha le chiavi e può farti entrare nottetempo senza rischio scattino allarmi o mandati di arresto, che ti accompagna attraverso le sale buie e ti lascia un po’ di tempo per te soltanto davanti al capolavoro, infine non trattenendosi dal monito “Ehi, mi raccomando: mi sto giocando il lavoro”. Non c’era nessun bisogno. Non avevi nessuna intenzione di commettere infrazioni. Volevi del tempo riservato per fare la conoscenza con quelle orme di capriolo sulla neve, con quel linguaggio che non sapeva di esserlo, che lo è in assenza, che non è un linguaggio quanto il suo spettro, il ricordo confuso di un linguaggio ormai scomparso, di cui si interromperanno all’improvviso le tracce.
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Nella stessa raccolta, La piazza selvaggia, c’è Sfere di fuoco. I primi cinque versi li ho ricopiati in lingua originale e li ho incollati sulla bacheca social della donna che amo. A lei sono apparsi direttamente nella versione proposta dal traduttore automatico e mi ha rimproverato: “Cosa mi hai scritto? Mi sono vergognata. Sembra una cosa pornografica su un corpo con cui fare l’amore di notte in mezzo alle lucciole e agli ulivi”. Domande inutili: il poeta Tranströmer di Per vivi e morti (1989, non più di 58 anni), in L’usignolo di Badelunda avrebbe potuto scrivere il verso “Nella verde mezzanotte al confine nord dell’usignolo” se prima non avesse scritto tutti gli altri versi prima di quello? Ci sarebbe potuto essere un Tomas Tranströmer esordiente nel 1989 con la raccolta Per vivi e morti se non ci fossero stati prima tutti i poeti Tranströmer da 17 Dikter in avanti? Tranströmer in La gondola a lutto (1996) ha dei versi anche per un altro sogno, non solo per quello della bambina neonata che si esprimeva in frasi compiute. Sono i versi “Sognai che avevo disegnato la tastiera del piano / sul tavolo di cucina. La suonavo, muto. / I vicini entravano ad ascoltare”. Scrive degli haiku ma il Tranströmer non più che sessantacinquenne, a cui mancano ancora quindici anni buoni prima di essere premiato col Nobel e di ricevere un po’ di articoli sulla stampa nazionale italiana, ha aumentato e concentrato la sua capacità di non aver bisogno di chissà quante sillabe per disorientarti e spalancarti. Nella poesia Silenzio (in lingua originale svedese: Tystnad) scatena un paesaggio sconfinato quanto il verso: “Blommor i diket. Fanfar och tystnad”.
Antonio Coda