“In tutti voi si annida il demone della distruzione”. Anton Čechov, lo scrittore ambientalista
Cultura generale
Diana Mihaylova
Non andrò a ripercorrere la genesi della Tosca, che vide Margherita Palli quale scenografa e Luca Ronconi regista. Mi concentrerò su di un aspetto. Oggi non si fa che parlare di cornici, rifacendosi a tutta una tradizione che va da Simmel a Stoichita, da Ortega y Gasset ad Ernst Bloch. E così Johan & Levi ha recentemente pubblicato un volume sull’argomento e si attende l’uscita del nuovo numero di Fata Morgana, Quadrimestrale di cinema e visioni, proprio sulla cornice.
Eppure di Ernst Bloch sembra essere sfuggito un passo, contenuto nei meandri delle sue Tracce. Lo riporto come segue: «Siamo a teatro, le candele bruciano sul tavolo nell’ultimo atto del Wallenstein, Wallenstein sottoscrive il contratto con Wrangel: le candele e il tavolo sono veramente candele e tavolo, non recitano. Non erano certo gli stessi, ma candele e tavolo non erano diversi nel momento in cui il Wallenstein reale sottoscrisse l’accordo con il generale reale. Gli uomini di oggi intorno alle candele e al tavolo, insomma i protagonisti di oggi, sono invece degli attori; come mai non si produce alcuna rottura, come mai lo spettatore non sente, illusione per illusione, la differenza di piani esistente in relazione a ciò che viene fatto o preso sul serio? Allora anche le cose recitano?».
Come può questo passo non interrogare la differenza tra una rappresentazione di carattere figurativo, contenuta all’interno del perimetro di una cornice e la rappresentazione teatrale protetta dall’architettura del boccascena?
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Sono stati fatti tentativi per rispondere a questo interrogativo, ma forse non è ancora stata fatta, assecondando le conoscenze di chi scrive, una disamina del problema alla luce del più ampio lavoro di Luca Ronconi. Questi non ha mancato, nelle sue regie, non solo di rifarsi all’arte figurativa (come in Arianna di Nasso, Teatro alla Scala, 2000) ma anche di inserire vere e proprie cornici all’interno del boccascena, come – appunto – in Tosca.
La scelta non è così recente, ma può sicuramente esser fatta risalire a La Valchiria (Teatro alla Scala, 1974), Sigfrido (Teatro alla Scala, 1975), Nabucco (Teatro Comunale di Firenze, 1977). In tutte queste opere cornici d’ordine figurativo subentrano a cornici teatrali.
Memorabile, ma di diverso segno, la rappresentazione del Calderòn al Teatro Metastasio del 1979, in cui fu riprodotto Las Meninas.
Dalle damigelle di Velazquez, passando per un intero ciclo dedicato al celebre dipinto di Pablo Picasso, sino al Calderòn di Luca Ronconi e Pier Paolo Pasolini. Se quella di Picasso è paragonabile ad una rivoluzione, l’operazione attuata dal regista teatrale non è da meno; in quanto obbliga a ripensare la scena nei suoi rapporti e nelle sue differenze nei rispetti dell’arte figurativa.
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Ma dove, sempre nell’avviso di chi scrive, la riflessione ha toccato il suo culmine? Questo è accaduto quando il regista si è trovato ad avere a che fare con il Palazzo Farnese di Caprarola e la resa televisiva dell’Orlando. È allora che l’uomo e l’artista hanno intessuto un fitto dialogo con l’ambiente circostante: la parete affrescata della scala regia, le cornici delle finestre e delle porte, l’assetto architettonico e… last but not least… La Sala del Mappamondo.
Questi fatti richiedono un serio studio, al quale qui si è solo voluto accennare, che unisca le competenze di cultori di belle arti come di studiosi di teatro, di lettere, di architettura e di cartografia. Uno studio che ponga al centro della riflessione i diversi rapporti e ordini della rappresentazione.
Agnese Azzarelli
*In copertina: la “Tosca” secondo Luca Ronconi va in scena alla Scala di Milano il 4 luglio 1997; la scenografia è di Margherita Palli