Contro il controllo del pensiero. William Burroughs, o della poesia
Politica culturale
Se sistemi davanti al tuo groppo di cordoglio una manciata di aggettivi, vedrai sorgere la carena di un sogno difettoso. Se la chiami fortuna e basta diventa un destino che fiorisce, qualcosa di buono. Il destino si trasforma in fato, calamità, o una specie di scherano, un tipo senza scrupoli, avete presente? Ti promette ravvedimenti, non succede mai, il ravvedimento, intendo. Ecco, bisogna tenere in mente o nell’eco di una grancassa la faglia del “mai”. Qualcosa di innaturale, come aspettare le cose che si compiono. L’attesa del Tempio. Alla fine del giorno, restavo lo stesso seduta, una statua di sale. Non ero siciliana forse? Non ero fatta per il sostare manicheo educato a farneticare grandiose riconciliazioni, maestosi ritorni? L’abitudine a scorgere nei fuochi lanciati in cielo per la festa della patrona il margine di una speranza licenziata e infine ricevuta con larghe istanze. Prego, si accomodi.
I fuochi diventavano luminarie sconfinate dentro la volta bluette, sbrattata dall’azzurro accecante. Nella luce accecante ogni azione si smorza, si affatica, per questo siamo pigri, non soltanto perché siamo arabi. Lo siamo un po’. In quella terribile casbah del Tempio, lo scirocco lanciava di tanto in tanto d’estate strali di lontanissime felicità.
Ed era un po’ ricacciare nella faretra ogni contemporaneità, un mucchio di recriminazioni nella sostanza, spropositi scaldati al fuoco fatuo di un presunto talento. Coevo agli spropositi, nato in seno, germogliato magnificamente, ogni sproposito, in seno a una presunta eccezionalità. Ma come i ricordi, il pianto, e altre piccolezze amene, serbata in gran segreto, non puoi rivelarla, non contagia fratellanze o fastosità, piuttosto il sospetto, la diffidenza tracotante che nell’ignoranza di un rione diventa una regola da sgamare, sorprendere subito, prima che priva di alcun provento ti rivesta di una identità persino discinta. La rivelazione dell’ultima ora, quella capace di prosciogliere dal lazo di una qualche colpa – da verificare – la qualità utile nel vivere prudente, a sapere cosa significhi tuttavia.
Vivere prudente: è un sostare ignobile, sulla panca, sotto l’ombra di un melograno.
Bacche brune rotolano sulla piana metafisica, un bambino asiatico rincorre un rivolo di acque sporche. Nessuno se ne occupa. Mi siede accanto un anziano del rione. Vorrei indicargli la via, gentilmente guadagni l’uscita. Vorrei anche ridere. L’anziano si siede, ha una camicia aperta sul collo duro, rugoso, una di quelle camicie in uso dai coloni nella domenica del paese. La domenica del paese con la chiesa sulla piazza, l’alveo ardente dell’ostro avvitato sopra il nero bugiardo delle macchie o sugli sprofondamenti delle vallate, urlante tra vigneti e sentieri di olmi, brigate di carrubi e giardini di oleastri. Mi si scaraventa addosso l’onta della Sicilia da primate, la medesima che devi raccontare come un suggello, e non la sai raccontare come un suggello, la Sicilia tetra, sguaiata dentro silenzi lustrali.
Le scrittrici siciliane raccontano la Sicilia delle trazzere. Devono spiegare cosa siano le trazzere, antiche strade carraie. Va bene?
Chiedi al colone di quale pane raffermo nutra il suo desco. Usa una lingua magniloquente, devi sorprendere il mondo nella qualità del tuo presunto talento. Apri una stanza, gli scuri, il sole rovescia ombrosità sulle pareti. È un linguaggio. O guazzabugli cromatici e caricaturali sul filo tremolante e sbieco del pulviscolo. Spalanchi le finestre come un ventaglio aprico sulle vallate. L’anziano sorregge la brutalità del mondo all’incirca risibile, dinanzi al suo mento. Lo fissa nella mestizia di una pazienza solenne, rimediata tra i vicoli di illeciti e riprovevoli disarmonie. Di cosa si nutra la vita, come il suo desco di pane raffermo? Come tollerarla senza perciò abusare dell’alibi di una metafora a scongiurare un affronto, l’indelicato insensato destino, o la chiami fortuna, con un aggettivo lo traduci in pathos, qualcosa di infelice, o aggiungi una monta di superlativi, perché sei vile, o tendi alla disfunzionalità? Cognizione disfunzionale, l’affronto, il disamore, si rapprende di significati aurei. Non è viltà.
Una forma di paraculismo, nell’idioma meno barocco che conosci.
La luce diventa lutto, è talmente imprimente da livellarsi a un bel corvino, un seppia, uno sconfinamento atro ma luccicante.
La Sicilia è una carrozza su cui salgono gai e appagati sodalizi di opposti. Così al Tempio siedo con un mezzadro dal quale ricavo massime esistenziali inattingibili, lungo condotte perlopiù tacite. Esser pazienti non è soltanto l’esercizio di virtù. È una risposta torrenziale a ogni incapacità. La nostra manchevolezza riordina nell’esercizio della pazienza, gli errori contratti, il male che si infila nella gramigna dei nostri mormoramenti. Non c’è empietà più testarda di un mormoramento.
L’anziano mi riferisce della sua povera cena: formaggio di capra e verdura bollita. Un bicchiere di nero. Una sigaretta alla fine, sul ciglio della porta che da sul vicolo. La milizia dei pensieri che non si slacciano ordinati e in qualche modo consolatori. Pensieri che risalgono l’uno sull’altro nella forma di paesaggi, nature smorte, chiazze sulla tela. Quella era la gioventù, il matrimonio, la sposa. I figli. Il podere. L’aratro.
Il volo del falco, nella sera brulicante rumori lunari, un temprare sordido di assenze, intercettate, come nella pagina di Malaparte, ne La pelle, quando sulla cima di una via, tra le brume dei cipressi, auscultava gorgogliare dolorosamente ogni lingua del mondo.
Ed erano uomini, crocifissi.
Il colone ricorda il podere nella campagna di Palazzolo, la sera, la guglia del campanile della matrice, svettante sopra le pendici, una geometria confusa alla fine dei tornanti, uno dietro l’altro.
Fissa il polverone all’angolo del vicolo, le ombre che lo calpestano fino al cortile con l’edicola votiva. L’umanità acquattata per il preambolo serale, la tristezza che dismette qualcos’altro, la morte sul desco, un po’ il companatico dell’unico estenuante esercizio di pazienza, in uso ai mezzadri, che non sanno, gesticolano bruscamente e preferibilmente tacciono, per cui le massime esistenziali si premuniscono di indissolubile autorevolezza di cui sopra si argomentava la gravosità purificatrice.
“E lei, signorina?” mi chiede. “Lei cosa mangia, stasera?”. E schiarisce la voce, un po’ artefatta e gentile, perché sono educata e inusuale se vogliamo, con indosso drappi di crinolina.
Tengo le braccia incrociate, e medito sulla risposta, deve essere giusta. Per lui. Poi per me.
Potrei mangiare anche io la lattuga bollita e bere del latte fresco, non di capra. O soltanto del pane. “Mi bastano piccoli tozzi”. Non è vero. Ma lo dico. “Sono come un passerotto”. Sorrido. Non è vero.
“Mi basta”, concludo. Non è vero.
Quando finisce il giorno, sembra che qualcosa sia accaduto.
Non è vero.
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature