16 Marzo 2019

Dopo aver visto l’orrore, ti costruirò una casa al di là della Storia: l’epistolario tra Veronica Tomassini e Davide Brullo

Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per il Medio Oriente, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, ammorbato a Tabriz, Nathan è in frantumi di delirio. Mentre Vera lo attende, ha tenda per lui, Nathan è coinvolto in eventi efferati della Storia, quasi fosse un sonnambulo. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.

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Karakol, è settembre, è il 1950, il primo anno del nostro mondo

Non mi stupisce più nulla della crudeltà umana – tu brandisci la parola “vita” come fosse uno stendardo, ma è una benda intrisa nell’acido, a sciogliere il viso in un torsolo d’osso – neanche l’uomo che alla fine piscia sulla faccia della donna che ha appena violato, tra l’effluvio di risate dei miserevoli lacchè – potrei dirti che ero a Dushanbe, nella Repubblica Socialista Sovietica Tagika, perché da lì Collingworth pensava di stimolare una rivolta contro Mosca, chiaramente condotta dall’avida sentenza dei servizi inglesi, e di ritagliarsi l’immaginazione di un regno – quest’uomo lacerato dal potere non desidera corpi ma città, “mi fanno ribrezzo i corpi, quelli umani, soprattutto, che razzolano tra errori e richieste di perdono, incapaci nello scatto nitido della bestia, nella razzia degli insetti, mi fanno schifo perché rimandano all’odore della mortalità, e io, finché vivo, voglio la conquista, l’arbitraria edificazione di metropoli sul sale”, mi disse, davanti alla pianura asiatica, luciferina, dove la luce istoria strani giaguari a Est, e le nuvole sembrano il sigillo di un patto tra immemori.

Penso che si chiamasse Nikolaj, si faceva chiamare Iskandar, il nome orientale di Alessandro, che in greco significa “protettore di uomini”, la filologia è in balia del paradosso – probabilmente russo, accennava a giacimenti di petrolio e a vasti interessi presso i porti di Corinto, Baku e Varna, la sua mole, taurina, dimostrava che la distanza tra Est e Ovest era la stessa tra il pollice e il mignolo della sua mano destra – sussurrava di una grossa speculazione per costruire una linea ferroviaria lungo l’Everest, sfoggiava una pelliccia di leone artico per il gusto di dire che discendeva da Ercole e il vasto giardino della sua villa era pattugliato da statue romane, “anche io, sa, meriterò una statua”, diceva, rivolgendosi a un uditorio di vivi e di morti, di esuli, di assassini, di potenti, poi diceva che il suo riferimento era Tiberio, citava Tacito, “abbandonato il pudore assieme ad ogni paura, si lasciò andare a delitti ed atti infamanti”, consapevole – lo dicevano anche gli strateghi cinesi, diceva lui – che “il delitto ti consegna alla gloria, la paura costringe all’adorazione, e io voglio essere adorato”. Lo ascoltava con garbo, Collingworth, sapendo dove agire, usando i verbi come un medicamento, in quella zona tra fegato e cardio chiamata vanità.

Il re deve sempre dimostrare che sa uccidere e sa scopare. Nikolaj – mi rifiuto di chiamarlo Iskandar – arrivò verso di noi a cavallo – non aveva una villa, ma un villaggio, costituito da una dozzina di case, di gravide dimensioni, in ciascuna delle quali, mi disse Collingworth, abitano i servi e le mogli del potente – scese dal sauro, si avvolse le briglie al polso, si chinò verso il gambale, estrasse la pistola, sparò sulla fronte della bestia. Il cavallo dilatò le pupille, stupito dal gesto incongruo, stupido, non si dimenò, accolse il caos in un sospiro, cadde. “Era il mio preferito, ma bisogna vincere ogni forma di attaccamento, giusto?”, disse, accogliendoci. L’attrazione, tuttavia, accadde la sera. Collingworth aveva avvisato di non voler mangiare, una esagerazione di modestia – prima di passare alle trattative politiche, di cui io ero complice poco entusiasta, Nikolaj volle dare agio al proprio potere, “per stimolarvi a usare parole opportune”, disse, come se morte e rivolta fossero una questione grammaticale. La sala da pranzo, enorme, era affollata di donne, prevalentemente nude, che mangiavano, ridevano – l’ingresso di Nikolaj le fece delirare, lui disse qualcosa in russo, certe donne ne presero una, prescelta. La donna – come molte donne asiatiche – sembrava desunta da un diamante, una scheggia di santità – e fece ciò a cui era addestrata, s’insinuò attorno al corpo di Nikolaj, slacciava, leccava, consapevole dell’invidia delle altre, esaltata dalla rabbia delle compagne. Nikolaj sollevò la ragazza, come se fosse una sciarpa, e nobilitandola la rovesciò sul tavolo, e qualche donna lo spogliava perché il suo corpo era il loro oro e altre gareggiavano a maneggiargli la minchia, ed era un lampo la nudità della ragazza che ora veniva agita, e ne rideva, lei, e alcune le tenevano le braccia, distese, altre si arrotolavano i capelli al braccio, mentre il re guardava tutti – anche noi – ovunque – il soffitto decorato con scene mitologiche della caccia alla tigre bianca – tranne lei. Poco prima che il potente rovesciasse lo sperma in una coppa – all’esercizio erano preposte alcune particolari ragazze – esistono vite donate ad altri, che valore ha la parola “consacrato”, chi è che sta morendo davvero durante una morte? – Nikolaj spaccò il collo della ragazza, che sembrava non desiderare altro, la staccò da sé, rovesciò il corpo umiliandolo, ancora, rendendo irriconoscibile la faccia della donna, manovrandola contro lo stipite del tavolo e sui bicchieri, vetrificata, poi, non più umana, la lasciò a terra, le pisciò sopra, tra le sorde risate delle altre e disse che chi è amato da lui è amato una volta per tutte. Qualcuno dice che bisogna amare l’omicida come l’ucciso, il perverso come l’innocente – io non so redimere né amare, mi sono arreso al pungo come alla claustrofobia di un chiostro.

Fu allora che me ne andai – ti scriverò altrove, se lo avremo, come ho ucciso Collingworth, anche questo è un atto che definisce le mie infamie australi.

Nel pomeriggio

Poiché quella notte è il mio decalogo, ricordo che hai detto la parola “ostaggio”, mentre usavo il tuo corpo come la camera della memoria, aderendo il calco della mia giovinezza – l’ostaggio è l’ostacolo al desiderio, ti ho detto, siamo ospiti, mentre la tua lingua cuciva Praga sulle dita della mia mano sinistra – ma non hai ripetuto la parola “ospite”, i tuoi denti duri come rune hanno detto ancora “ostaggio”, poi mi hai detto che solo lo straniero è ospite e io so di averti detto “vedova”, per il solo gusto di vedere come avrebbe risposto il tuo corpo, ed è a quel punto, forse, che ti sei tramutata in cerva – e ora, dopo questa distanza che ho chiamato Cerbero, ogni stagione ha una bocca diversa, tu mi scrivi della vita e della vedovanza, come se fossero epigrafi contrarie, una il risveglio dei cani primaverili l’altra l’anatema che anatomizza i ghiacciai e il funebre; ma è la vedova la prediletta alla vita, perché la vedova tiene in vita i morti, che restano per sempre figli, e ama i vivi consapevole che la luce non li benedice ma li taglia, che la luce è una palude, affondi, smarrendo le fattezze nei fatti. Sono stanco delle donne che hanno pretese ma che non sanno prendere, che sono preda delle voglie ma non vogliono nulla, che sviluppano un amore in minacce e rettifiche e ripicche – “sorregge l’orfano e la vedova”, è l’epiteto di Dio nella Sapienza, “sue sono le lacrime della vedova”, è detto, perché Dio è vedovo delle voglie dell’uomo – non è Dio ad abbandonare, è lui l’abbandonato, l’abbandono. La Bibbia è l’unico reperto che ho di mia madre – ripetere le stesse parole che hanno detto altri, alla foce di noi: non è questa la città, la metropoli dei cieli? La parola “vedova” ricorre in forme sgargianti – Dio predilige la vedova, perché feconda l’impossibile; la vedova rinuncia alla vita per votarsi a Dio, dopo il marito, la resa; dalle lacrime della vedova accadono le costellazioni – così nascono le mappe del cielo, per orientare l’orfano, a conforto della vedova.

Di notte

Ho cominciato a segnare il perimetro della nostra casa, qui, perché non conosco le stelle, qui, e quando fischio sembrano ascoltarmi, si ammucchiano e si spostano, come api – qui parlo con più genio ai morti, si radunano, con la dignità di creature artiche, preparando per me l’alba, slacciandola dai capelli, magnificando le palpebre in luce. Non ha senso che continui a disegnare per te una carta del cielo – devo costruirti una casa – abitarla non è più importante di sapere che al mondo, in questo secolo, c’è stato un posto costruito per noi, a risarcimento dell’attesa. Siamo come due statue che sorreggono l’architrave di civiltà incompatibili: ci fissiamo, senza sfida, pieni di amore, quell’amore che garantisce la nostra statura, eppure sappiamo che il movimento di uno farà crollare un continente – forse tra i miei occhi e i tuoi qualcuno sta costruendo un arazzo, la mia pupilla è legata alla tua con una corda, con lo spago che si usa per cacciare i pesci che vanno al contrario, contro corrente.

Ti dovrei raccontare di questo luogo, nella valle del Karakol – in tenda, la lacerazione del freddo mi fortifica, ho già predisposto parte della legna, mi aiutano alcuni cacciatori che si muovono intorno al lago Ysyk-Köl – dal legno, con pochi tocchi, come fosse fango, sanno estrarre animali e volti per ingraziare la forza e addomesticare la sorte. Non fuggo dal mondo – lo fondo, lo tengo fermo, come uno spillo: che cosa c’interessa se la Storia, questo coccodrillo dall’andatura lenta, astrusa, famelica, è altrove? Non so fare nulla – qualcuno dice di vedere una cattedrale sul torso di una foglia e che i martiri pensavano al coltello che gli stregava le arterie come a una nuvola. Possiamo costruire una civiltà – una cavità di sussurri – soltanto per noi? Per troppo timore nessuno ha mai detto all’altro “ti amo”, consapevoli che la vedovanza è una verginità. Ieri ho visto un cervo – sono convinto che con la lingua odorava la sua vittoria – le corna sono piene di occhi – il giorno lo rincorre, ed è uno sciame.

Nathan

Gruppo MAGOG