Vissuto nel XIII secolo, Todros Abulafia – o meglio: Todros ben Judah Halevi Abulafia – ha vissuto nel gorgo della contraddizione. Conosceva l’arabo e scriveva in ebraico, adottava, a seconda degli umori e delle stagioni, la retorica della poesia cortese oppure l’estro rabbinico, le metafore e le citazioni del talmudista. Era pratico nelle arti dell’amore come nei dettami della cabbala; univa, per così dire, necromanzia e teologia, virtù e voluttà.
“Senza alcun dubbio, fu una delle personalità più pittoresche e carismatiche della poesia ebrea medioevale. A volte ci appare come un opportunista che insegue i potenti, persegue l’ambizione di diventare ricco; è un ludico ribelle, un lussurioso, il frivolo cavaliere castigliano. Altre volte si mostra nelle vesti del penitente, dell’uomo spirituale dalle chiare inclinazioni religiose”.
Rachel Peled Cuartas
Di lui sappiamo poco, per lo più il dramma: nato a Toledo nel 1247, cresciuto alla corte di Alfonso X di Castiglia, fu poeta di spicco, con ruoli diplomatici. Cadde in disgrazia quando il re, nel 1279, gli ordinò di riscuotere tasse e terreni alla comunità ebraica castigliana, per finanziare le sue campagne contro i Mori. I soldi raccolti da Todros non giunsero a destinazione: uno dei figli di Alfonso X, nell’ambito di una disfida dinastica, li spese per i propri fini. Il sovrano fece giustiziare alcuni esattori e gettò in carcere Abulafia, che si era rifugiato nella sinagoga di Toledo. Uomo dalla vita tortuosa, virtuoso della dissipazione, in carcere Todros Abulafia affina i versi, che toccano le corde del de profundis e della lamentazione biblica. Il poeta dell’amor cortese, delle poesie erotiche ed ironiche, arabeggianti, così, si muta in salmista.
Graziato, si mise al servizio di Sancho IV, ‘el Bravo’, ma dal 1298, di fatto, perdiamo le tracce del poeta, perduto, forse, tra chimere e monasteri, desio e deserto. La sua opera, un diwan che conta oltre mille poesie, “Il giardino delle parabole e degli enigmi” (Gan ha-meshalim ve-ha-jidot), è, di fatto, l’unica testimonianza che sigilla la vita di questo hidalgo del disincanto. Il manoscritto ha avuto – un po’ come Todros – una vicenda intricata, degna di un labirintico racconto di Borges. Scomparso per secoli, lo ritroviamo in Egitto nel XVII secolo: il testo è passato per diversi antiquari, dall’Iraq all’India; uno studioso e affarista iracheno di stanza a Hong Kong comprende il valore del testo, lo acquista e lo consegna, nel 1906, a David Yellin, studioso di poesia ebraica medioevale, che dal 1934, a Gerusalemme, comincia a pubblicare i testi di Todros. La scoperta è sconcertante: nel 1980 Elio Piattelli, su “La Rassegna Mensile di Israel” (Vol. 46, n. 3/4) traduce una selezione de I canti dal carcere di Todros ben Yehuda Abulafia:
“Dal punto di vista formale notiamo che non vi è nelle poesie di questo autore nessun segno di trascuratezza nell’uso degli artifici consueti alla poesia ebraico-spagnola medioevale: i metri tradizionali sono scrupolosamente osservati, le rime sono ricche, la scelta delle parole è tale da creare un insieme armonico”.
La scrittura carcerata – o della avverata cecità – costituisce un canone proprio, della privazione, una sequela del profondo. Che la poesia vada tentata nel reclusorio, cercata tra i reclusi è silenzioso assioma: libera soltanto ciò che è giunto da sbarre.
Di recente, Rachel Peled Cuartas ha curato per la casa editrice Hiperión di Madrid una edizione di Poemas selectos di Abulafia: a quel libro si riferisce la nostra breve scelta. La curatrice insiste nel caratterizzare Todros Abulafia come “un grande virtuoso dell’arte lirica”, “un innovatore, un ribelle che ha modificato i crismi della poesia trobadorica toledana”. Per lo più, Abulafia è poeta che non si colloca con agio nell’organigramma delle storie della letteratura. Nei suoi versi, la vita è famelica e a volte Dio coincide con il fato, è il portale del caos.
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Il tempo vuole annegarmi mentre dolcemente fluttuo sul suo volto, e inquina il mio miele con il veleno.
Non gli basta un figlio morto e la fortuna perduta: ha iniziato a percuotere il mio corpo con mille dolori.
Farò fallire le sue inique strategie riempiendomi la bocca con inni di gloria al Signore.
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Se questa prigione non avesse fine accetterò con amore ciò che viene da Dio.
Se i miei persecutori mi sottraggono ogni fortuna intatte resteranno l’intelligenza e il cuore.
Se mi martirizzano in questo mondo la mia anima godrà nell’altro.
Se mi manderanno a morte, andrò con immenso piacere nella casa del Dio vivente.
Dio ha le sue ragioni: gioisco dei tormenti che per mio riguardo redige.
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Con l’oscurità del mio cuore si pittura gli occhi con le perle delle mie lacrime si lucida i denti;
pallore e rabbia: con il bianco dei miei capelli e il sangue del mio fegato, si imbelletta il volto.
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Quella graziosa fanciulla ha seni che nessuna mano ha sfiorato:
mi addentro nell’oceano del suo desiderio acqua così vasta e spaziosa.
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Tremo d’amore come una partoriente, ma nulla dono alla luce: sono caduto tra i lacci di una figlia d’Arabia.
La mia anima anelava così tanto i suoi baci che per lei volevo diventare una donna:
d’altronde, soltanto le donne lei bacia, ma sono un uomo, nient’altro che una creatura perduta.
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Il destino, maledetto, mi ha malmenato a lungo: e io maledico le sue azioni, da bandito!
La mia vista si è indebolita, invecchiato il viso, marcato di rughe il corpo;
il destino mutevole e immotivato converte il bene in male, il rubino in pietra volgare.
Chi afferra quel poco che possiede crede di raccogliere acqua in un panno.
Spero in Dio, centellino il suo nome purché mi liberi dai miei tormenti.
Con una lingua limpida rimarcherò la sua gloria mentre scoscendo da una lettera all’altra.
Il Signore ci darà la sua Pasqua: senza pane acido o amarezza, mi auguro.
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Anima, parla al Dio della poesia ti prego, ricorda la sua misericordia.
Offri il canto dell’usignolo al suo Nome offriti come frutto a Lui;
medita la sua Legge, in Lui sprofonda: non altra è la bontà del destino.
Portagli una lode in vece del sacrificio, una poesia al posto del toro o della colpa.
Non confidare nel tempo dacché il tempo è un ribelle:
fluttua nella bontà di Dio e ti inonderà di luce;
non ti confortino i piaceri del mondo non farti intrappolare dalla sua voluttà.
Lui è sola sorte; sortiscono il bene e il male da Lui sempre; in Lui sostano volontà e collera;
scoprirai che è più dolce del miele più possente del leone;
per questo, che tu sia in lutto o in pieno vigore, parla, anima, al Dio della poesia.