Tiziana Lo Porto poetessa, scrittrice, pensatrice, giornalista, cultrice di cinema e tra le più importanti traduttrici dall’inglese e dall’americano in Italia. Vive tra l’Italia e l’America, nel movimento lento e regolare degli antichi migranti attraverso gli oceani che popolano La ragazza che va in sposa (Edizioni Sartoria Utopia, 2023), la sua prima raccolta di poesie nata nell’attraversamento del lutto e del dolore. Per questo, il piccolo libro che si affaccia agli scaffali delle librerie con una copertina arcobaleno e la quarta a chiudere la raccolta con il disegno di una tigre che saluta il lettore con un cenno a William S. Burroughs, è una cartografia personale di amori e fantasmi, di poeti e addi, di promesse e attese. Le copie del libro sono numerate a mano, con un pennarello arancio, e anche questo minuscolo gesto è poetico.

Oceani, acque, mare che, come nella poesia Sciopero divide e separa gli amanti, segnano l’ineluttabile impossibilità di amarsi tra continenti inconciliabili. La distanza, i silenzi, la prudenza, l’assenza, e ancora il mare, gli iceberg, e tantissima acqua che isola gli esseri relegandoli a zattere amorose. È questo l’amore tra le anime elette secondo Tiziana Lo Porto?

Non credo che l’amore abbia a che fare con le anime elette. È un sentimento alla portata di tutti. E io in particolare non sono un’anima eletta. Nelle poesie che ho scritto ci sono tutte le cose citate sopra (prudenza, assenza e via dicendo) ma c’è anche l’esatto contrario: dichiarazioni d’amore, presenza, baci e tutto il resto. Le ho scritte quasi tutte in Italia, senza che ci fosse alcuna distanza tra continenti e amanti. Credo che l’amore sia tutte e due le cose: presenza e assenza, vicinanza e distanza. Ciò detto non ho un’idea chiara di cosa sia l’amore, nemmeno sono certa che esista, o forse lo so con certezza. Dipende dalle giornate. Esiste qualcosa che chiamo amore, e mi piace chiamarlo così, ma forse metterlo in poesia, cantarlo in poesia è solo un modo per sentirmi rassicurata sul fatto che esista davvero. Quando dall’esterno non arrivano conferme, le cerchiamo dentro di noi. Fa parte di quella che John Keats chiamava negative capability, la capacità negativa, ovvero la capacità di stare nel dubbio e nell’incertezza, senza interrogarsi troppo, e piuttosto che disperarsi fare come l’usignolo, andare sul ramo e cantare. Marianne Faithfull ha chiamato Negative Capability un suo bellissimo album. Ciò detto, se davvero non mi sentissi amata dalla persona che amo non riuscirei a scrivere nemmeno una parola.

La sua poesia senza maiuscole è un omaggio agli antichi maestri, non necessariamente poeti in senso stretto. Dai versi di Cose da venerare si erge un pantheon privato dove “i morti, i poveri morti,” come scrisse Baudelaire, sono più vivi dei vivi, parlano, ascoltano, cantano melodie che solo la poetessa può intendere e dire. La musica fa parte della sua personale liturgia, nei suoi scritti fa spesso riferimento a numi tutelari, quali George Harrison, Bob Dylan e Patti Smith (della quale ha curato la traduzione di alcuni testi). Come entra la musica, con quali timbri, ritmi e stilemi nella sua scrittura e nel suo lavoro di traduzione?   

La parola ha sempre un suono, e anche quando traduco, rileggo le traduzioni ad alta voce per essere certa che suonino bene. E rileggo ad alta voce le cose che scrivo. Credo sia abbastanza naturale farlo. A volte ti accorgi che quel suono diventa musica. Ma non è una cosa ragionata. Succede e basta. C’è una canzone di Lucio Battisti che si chiama Mi riposa e dice: “E tu parli di noi senza abbandoni, e senza animazioni e con la correttezza di una traduzione che risuoni facile e fedele senza quelle inutili trappole e stili”. Ecco, è esattamente quello che cerco di fare con le mie poesie.

L’aura del pensiero magico, parafrasando Joan Didion, autrice molto amata, attraversa la sua poesia e la sua estetica, da cui l’adorabile ossessione per gli oggetti e i cimeli. Potrebbe raccontarci della giacca di Bernardo Bertolucci e del suo potere segreto?   

Non ha veramente un potere segreto o magico: mi piace pensarlo, ma sappiamo tutti che gli oggetti in sé non hanno alcun potere. Siamo noi che glielo conferiamo. È una giacca, in realtà due giacche, di Bernardo che sua moglie Clare mi ha regalato dopo che è morto. All’epoca ero quasi tutti i giorni a casa loro, in via della Lungara, ad aiutare Clare a mettere in piedi quello che presto diventerà un archivio. Ci siamo stupite entrambe che mi stessero bene, a vederle sembravano troppo grandi, e invece erano perfette. Da quel momento, fintanto che è inverno o fa freddo, le metto sempre. Poi è morta anche Clare, per cui sono ancora più legata a quelle giacche. Se le ho con me mi viene più facile parlare a mente con entrambi. Forse il potere che hanno è proprio questo. Generano conversazioni immaginarie che probabilmente accadrebbero lo stesso, ma meno spesso. Quando erano vivi, se vedevo un film particolarmente bello, erano loro le prime persone a cui lo dicevo: li chiamavo per dirglielo, perché lo vedessero anche loro, o, se lo avevano visto, per sapere che cosa ne pensavano. Adesso, quando vado al cinema o vedo un film o una serie in streaming, continuo a pensare a come lo vedrebbero loro, cosa direbbero, cosa amerebbero di quel film o di quella serie, cose così. Le nostre sono conversazioni del genere. Oppure racconto loro i fatti della vita. Parlare a mente con i morti è un modo per vivere il lutto. Non so se sia quello giusto o se sia normale, e nemmeno mi interessa saperlo.

Negli ultimi anni si è parlato molto e si è scritto anche da un punto di vista filosofico dell’atto del camminare. Ricordo un incontro introdotto con entusiasmo dall’allora direttore Nicola Lagioia, al Salone di Torino 2022, di Tiziana Lo Porto e Werner Herzog. Entrambi grandi camminatori, vi siete confrontati sul camminare, sul legame con il paesaggio, con il silenzio dei passi, sul pensiero ascetico che muove a ritmo del respiro. Nelle sue pagine diaristiche lei parla spesso di lunghi attraversamenti di New York, per esempio. Come entra nel pensiero e nella scrittura di Tiziana Lo Porto il camminare?

Quando traduco e non riesco a risolvere qualcosa, esco di casa e cammino. E la soluzione arriva, arriva sempre. Alcune poesie della raccolta, e in generale le poesie che scrivo, mi sono venute in mente camminando. Alcune le ho scritte sulle note del cellulare, fermandomi da qualche parte mentre camminavo. Forse è una cosa legata al movimento. Camminando e basta, liberi la mente, pensi più facilmente. O forse è legata allo sguardo, a tutte le cose che uno vede camminando. Herzog cammina più di me.

Da un ricordo che Bernardo Bertolucci le ha affidato: Gadda, durante una visita a casa del regista, prese a parlare con il piccolo Giuseppe, che all’epoca aveva sì e no sei anni, dandogli del lei. Agli autori che lei ama, studia, e traduce parla evidentemente con un approccio che trasuda rispetto e devozione. Esiste un autore che ancora non ha tradotto e che vorrebbe poter trasporre in italiano, magari dandogli del lei, e uno che non tradurrebbe mai e poi mai?

Il fatto è che in inglese il lei semplicemente non esiste. Sarei anch’io vecchia maniera come Gadda, che se diede del lei a Giuseppe bambino era probabilmente perché non sapeva fare altrimenti, ma con gli autori americani non posso farlo. Ciò detto, non tradurrei mai e poi mai gli autori che non mi piacciono, quelli che scrivono libri che non amo. Mentre quelli che scrivono libri complicati, o quantomeno complicati da tradurre, non mi spaventano. Rendono il momento della traduzione più avventuroso, con più suspense, e mi risparmiano dalla noia. Di autori che amerei tradurre ne esistono tanti, John Giorno, per esempio, o lo stesso Burroughs, che è stato ampiamente e ben tradotto, ma di cui esiste un libro di interviste, si chiama The Job, che non è mai stato tradotto in italiano e che vorrei tradurre. Il titolo, the job, viene dalla pagina del diario di un bambino di sei anni di Tangeri, in Marocco, citata da Burroughs a inizio libro. Scrive il bambino: “Mi sveglio alle otto e mezza. Faccio colazione. Poi vado al lavoro”. Aggiunge Burroughs: “Interrogato su cosa intenda per lavoro, il bambino dice: la scuola, ovviamente”. Il libro è una lunga intervista fatta da Daniel Odier, poeta e maestro Zen amico di Burroughs. Insieme ci lavorarono moltissimo, trattandola come un romanzo, un libro a tutti gli effetti. Cercando negli archivi di Burroughs in questi mesi che sono a New York, ho trovato diverse stesure del libro corrette a mano, che fanno capire quanto Burroughs ci tenesse. Ecco, mi piacerebbe tradurlo. Mi piacerebbe che per un po’ fosse il mio job.

Qual è il prossimo progetto di scrittura personale?

Sto scrivendo un libro sul Bunker dove dagli anni Settanta ha abitato Burroughs quando era a New York. È un loft al 222 della Bowery, apparteneva al poeta e artista John Giorno, scomparso nel 2019; oggi è della Fondazione John Giorno. Giorno meditava in quello spazio, che in parte è diventato una specie di tempio tibetano, e continua a essere un posto dove una volta al mese si può andare a meditare. Per il resto, lo usano per ospitare reading e altri eventi legati in qualche modo a Giorno o a Burroughs. La stanza di Burroughs è rimasta intatta. Quando ci abitava lui, sono passati di lì poeti, scrittori, musicisti, artisti. E grazie a Giorno sono passati di lì anche molti maestri tibetani. In quello stesso palazzo avevano il loro studio Mark Rothko e altri artisti. È un posto dove si è creato tanto e quell’energia in qualche modo è ancora in circolo. Mi è sempre sembrata una storia interessante da raccontare, e ho iniziato a fare qualche ricerca. Nel frattempo continuo a scrivere poesie. Cerco di scriverne tutti i giorni. Non tutte sono buone ma credo che la poesia richieda allenamento. Cerco di farne una pratica quotidiana, come la meditazione, o come uscire di casa e camminare.  

*L’intervista è a cura di Cinzia Bigliosi

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