18 Novembre 2022

È tempo di guerra civile. Il manuale eversivo di Tiqqun

Tiqqun è una rivista franco-italiana, d’oltranza, ultra, uscita in due numeri, nel 1999 e nel 2001. Dietro la rivista si nasconde un gruppo di anonimi. Chiamarli anarchici o anticapitalisti, allo stato dei fatti – cioè: dato avvio al gioco – è una riduzione. Ogni didascalia è la didattica del potere.

Il primo numero della rivista ha per sottotitolo Organe conscient du Parti Imaginaire. La trama del numero è esplicitata – per così dire – in basso: Exercices de Métaphysique Critique. Dall’ellissi anarchica la falange – o compagine o compagnia o cavalleria – di Tiqqun si muove alternando il linguaggio ludico – patafisica, surrealismo, situazionismo: da Queneau a Debord – a quello filosofico: per lo più ci si riferisce a Michel Foucault, Giorgio Agamben, Carl Schmitt. Lo sfoggio esoterico è palese: ci si rifà all’alchimia, alle effusioni misteriche di Robert Fludd, alla cabbala ebraica, alle incongruità di Alfred Kubin (tutto ciò, cioè, che non ha registro, che reagisce).

Nel primo numero della rivista, un’immagine del Ghirlandaio: la maschera scortata da grottesche mostruose che adempie il motto Sua Cuique Persona; a ciascuno la propria maschera, appunto.

Tiqqun, appunto, è termine che proviene dalla cabbala ebraica. Significa, nell’interpretazione che gli dà il grande rabbino mistico Isaac Luria (1534-1572) “la via verso la fine di ogni cosa è anche la via verso il principio” (Gershom Scholem). Perché le cose siano restaurate, devo esaudirsi finendo. Nel principio è la fine; dalla fine, il principio. Insomma, Tiqqun, la rivista, che ha promosso un ribaltamento dei principi dominanti, anela alla fine, agita il caos. Accelerare l’apocalisse.

Il moto messo in atto da Tiqqun ha avuto un certo esito che trovate facilmente in rete – l’esoterico esorcizzato dall’estasi pubblica. In Italia il collettivo anonimo Tiqqun è stato pubblicato da una casa editrice di pregio, in cravatta: nel 2004 Bollati Boringhieri manda in libreria Teoria del Bloom. L’anno prima aveva pubblicato Elementi per una teoria della Jeune-Fille.

Il secondo numero di Tiqqun – sottotitolo: Organe de liaison au sein du Parti Imaginaire – propone un tema altamente esoterico: Zone d’Opacité Offensive. Il numero è aperto da un saggio persuasivo, Introduction à la guerre civile, ora tradotto da Gog in un’edizione – in stile Tiqqun – fuori dai comuni canali commerciali, devi chiederla direttamente a loro (o stanarli nel loro covo romano). Il curatore del libro, Alberto Piola, chiude la postfazione sulla parola “gioia”.

Di cosa gioire? Del rifiuto, della ridente – ma non meno combattiva – rinuncia al mondo immondo. Vegliare nel rifiuto vuol dire vivere. I sovversivi sono somari perché agiscono dando credito alle ragioni del mondo; chi opera una sovversione autentica disorienta il dire comune – il diktat dei buoni, che agiscono per il bene di molti – orientato ai voleri del cielo, al tenore tellurico della terra.

“La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte”, scrive Edmond Jabès in un breviario, Il libro della sovversione non sospetta, che pare sorgente per Tiqqun, fiotto che scassa la pietra labiale. “Entrare dentro se stessi: scoprire la sovversione”, scrive ancora Jabès. Il poeta, il vero intemperante, imprevisto – dacché opera la sovversione primaria, quella del linguaggio.

Defraudato da dire odierno, il linguaggio, tara del misero scandalo, trama di seduzioni pubblicitarie e gogna e mallevadori di museruole, gora di morte. Il poeta, l’inutile, dà rifugio alle braci del linguaggio, a quelle linci in estinzione.

Introduzione alla guerra civile è scandito in 85 lasse: si narra della bieca istituzione statale che si deforma in Impero; si dice della coercizione – linguaggio che opera per il mercato –, polimorfica: politica, sanitaria, spirituale. L’Impero ti traccia, ti insegue, ha dominio della tua vita, decide della tua morte: compri ciò che suggerisce l’Impero, ti stordisci di farmaci, la morte è destituita di insensatezza. La paura è soverchiante, la crisi sbandierata come prosciutto per schiere assetate di sangue – uomini-vampiri. Tutto si accetta, proni, privi; da tutto si è accolti, per inchino. L’Impero ha struttura religiosa: schiavizza marginalizzando ciascuno nella propria prosastica individualità – benché l’individuo sia morto.

Non più persone, neppure quello: ci vuole arguzia, grazia per foggiarsi una maschera.

Il libro – questo è il punto di questo dire – è affascinante per sovrappiù di linguaggio. Esempi:

50 L’Impero esiste positivamente solo nella crisi, cioè ancora negativamente, reattivamente. Se siamo inclusi nell’Impero, è per la sola impossibilità di escludercene.

60 L’estensione delle competenze della polizia imperiale, del Biopotere, è illimitata, perché ciò che essa ha il compito di circoscrivere, di fermare, non è nell’ordine dell’attualità, ma della potenza. L’arbitrarietà si chiama qui prevenzione, e il rischio è questa potenza ovunque in atto in quanto potenza che fonda il diritto universale d’ingerenza dell’Impero.

66 L’Impero non si oppone a noi come un soggetto che ci affronta ma come un ambiente che ci è ostile.

Poiché la sovversione è linguaggio, di Tiqqun non importano gli esiti – esigui, infine iniqui – ma lo sfoggio verbale. Che si configuri come una narrazione fantascientifica, tra Star Wars e Thomas Hobbes, tra Dune e Ludwig Wittgenstein, consente a Tiqqun la profondità.  

Necessità di un immaginario, di una mitologia. Le ragioni del gioco, cioè le ragioni per cui dare la vita. Gioco di ruoli.

Tiqqun si rifà alla trattatistica orientale, alla scuola legista in generale, all’Han Feizi (III secolo a.C.; ne esiste una recente traduzione Einaudi) in particolare. L’Han Feizi è un testo che con spietata coerenza riconosce i cardini del politico, svela le sottigliezze dell’ambizioso, insegna l’arte della dissimulazione, la tradizione del tradimento, la dinamica che regola premi e castighi – il supremo del ricatto. Il punto focale è tipico del pensiero cinese: governo di sé e dunque del mondo; esegesi etica e dunque estetica; studio del “sovrano illuminato” e ascesi del “santo”. Secondo l’Han Feizi:

“Non è per rancore nei confronti del popolo che il sovrano illuminato infligge le punizioni, ma perché queste sono il fulcro stesso dell’amore. Se i castighi colpiscono con maestria, il paese è in pace, se i compensi sono immotivati è la criminalità a crescere”.

Ma, mi ripeto, il problema è profondo, riguarda il lignaggio del linguaggio. Introduzione alla guerra civile non è un testo dialettico, dialogico, filosofico – anzi: non ammette dialogo né replica. È testo assertivo, è un codice. Il velo ambiguo canonizza, per paradosso, la veridicità del codice. È il linguaggio di una legge che si staglia in gnosi, in sapienza.

Codice, cioè: individuarsi come seguaci o sicari di un dio.

Tiqqun fa riferimento, ad esempio, al Tao. Il Daodejing si compone di 81 capitoli, tesi, con potenza poetica, nitore d’incanto, a definire la Via. Asserzione e suggestione si mescolano: il linguaggio oggettivo della terra, quello allusivo del cielo. Così è Il libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi, sommo maestro di spada vissuto nel XVI secolo: il linguaggio, lirico e marziale, conduce a una disciplina d’ascesi. Introduzione alla guerra civile, in effetti, non insegna a fare la guerra civile, non ha nulla della sciatta pamphlettistica dei guerriglieri, dei polemici proclami brigatisti. Siamo già nella guerra civile, che in quanto tale è la via senza deduzione, una dedizione al gesto misterioso, alla sovversione silente. La guerra civile non è uno stato passeggero, bensì una disposizione dell’animo – von Clausewitz a braccetto con Basho.

In altro ambito. I codici del Catechismo della Chiesa Cattolica come il cifrario delle leggi: lettura affascinante, normativa, resa all’ordine. Dall’altro lato, il Vangelo di Tommaso che raccoglie i detti di Gesù: lettura abbacinante, rivelazione barbarica. Esempio:

Gesù disse: “Beati i solitari e gli eletti, poiché troverete il Regno; voi infatti da esso venite e a esso nuovamente ritornerete”.

Ogni pensiero autenticamente religioso è eversivo. Emerge diverso, in un altro verso.

Ogni società deve essere di pochi e di anonimi: “Colui che beve dalla mia bocca, diventerà come me; io stesso diverrò come lui e gli saranno rivelate le cose nascoste”.

Secondo Giorgio Colli il pensiero antico è una sfida sul senso del discorso, del logos: enigma o principio di non contraddizione? Sortilegio o ragione? Detto del dio o discorso dell’uomo? Dov’è la distanza tra il gioco tragico della Sfinge, le rivelazioni della Pizia, gli editti di Solone? Platone scrive le Leggi, Eraclito preferisce i frammenti, intrisi di evanescenze, sospensioni, fratture.

Terminato l’agone, nel linguaggio, non resta che l’agonia.

L’agitatore, l’agnizione, il poeta.

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