17 Febbraio 2020

Perché ostinarsi a leggere brutti libri, sprecando così la propria vita? Passeggiando con Tim Parks…

Se vi offrono un bicchiere di vino e al primo sorso capite che è andato a male, continuate a bere?

Questo incipit mi è stato ispirato da un libro di Tim Parks, Di che cosa parliamo quando parliamo di libri (Utet), una raccolta di brevi saggi che osservano il mondo editoriale con ironia e coraggio, senza alcun complesso d’inferiorità.

Tim Parks si chiede se è proprio necessario leggere fino in fondo i libri brutti, e poiché ritiene che più libri brutti leggiamo, meno tempo avremo per quelli belli, cita una frase di Schopenhauer: “La vita è troppo breve per i libri brutti e qualche pagina è più che sufficiente per poter elaborare una stima provvisoria della produzione di un autore”.

Detto in altri termini: “Non bisogna scolarsi tutta la botte per scoprire che il vino è diventato aceto”.

Il problema è che il lettore che si spaccia per esperto manca di autostima e si comporta come quello spettatore del teatro di avanguardia degli anni ’70 – le ‘cantine romane’, chi se le ricorda? –  che usciva dalla sala con gli occhi stralunati e il viso torvo, ma se qualcuno gli avesse chiesto un parere sullo spettacolo, avrebbe risposto: “Non ci ho capito un cazzo, ma è bellissimo”.

Persino un mio amico, un lettore forte, mi ha detto che è sua abitudine bere fino al fondo il calice amaro della mediocrità perché “un romanzo può sempre risorgere”.

Per convincere il mio amico che si sbaglia, facciamo due conti. Una giornata dura 24 ore, molte delle quali vanno occupate con attività necessarie quali dormire, mangiare, andare in bagno, guidare, lavorare, sbrigare piccole faccende e noie burocratiche. Poi, supponendo di avere un coniuge, un figlio, un cane, un gatto o un amante, occorre dare spazio alle persone che contano nella vita reale. Quanto tempo rimane per leggere? Poco.

Poniamo il caso che dopo una stressante giornata troviate il tempo di stravaccarvi sul divano con la tv accesa e una birra gelata. Un primo sorso, e vi accorgete che quella birra è piscio freddo. Che fate? Continuate a bere?

È vero che il brutto è un concetto relativo, e probabilmente chi ama i romanzi della Collezione Harmony ritiene che Joyce abbia elevato con l’Ulisse una cattedrale di noia, ma una cosa è certa: i libri che non danno piacere rendono poco piacevole la vita di chi li legge.

Con arguzia sommata alla voglia di stupire, Tim Park dice anche che nel caso di un bel romanzo, un lettore potrebbe decidere di non arrivare all’ultima pagina, senza sminuire in nessun modo l’esperienza. Un romanzo è compiutamente concluso dove il lettore decide di concluderlo, esercitando uno dei diritti: quello di smettere di leggere.

Uguale libertà è riconosciuta agli scrittori. Il Castello e America sono due pietre miliari della letteratura anche se Kafka li lasciò incompiuti, e lo stesso si può dire di Carlo Emilio Gadda e dei suoi romanzi migliori: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e La cognizione del dolore.

Tim Parks si rivolge, nelle 300 pagine del suo libro, al lettore esperto e all’occasionale, al professore e allo studente, a chi legge le pagine culturali e a chi si mette in fila per ascoltare gli scrittori famosi ai festival. A tutti parla con semplicità, e questa è una virtù che gli appartiene, sia che scriva saggi sull’Italia, sia romanzi, libri sul calcio o sulle filosofie di guarigione.

Parks stuzzica l’intelligenza del lettore facendolo riflettere sulle contraddizioni del mondo editoriale. Si chiede cosa c’è che non va nel Nobel, se abbia ancora senso scrivere romanzi fiume, se in letteratura è già stato detto tutto, se esiste una funzione sociale del romanzo, se l’essere uno scrittore di cui si parla è frutto della casualità, se può esistere un’arte che sia immune dal rapporto con il denaro, se la traduzione è una violenza che stravolge l’originale, se è stupido parlare tutti degli stessi libri e degli stessi scrittori, e anche, piccola curiosità morbosetta, se Svevo scriveva di relazioni adulterine per mettere alla prova la moglie.

I personaggi che racconta: scrittori, editori, lettori, sembrano marionette di un teatro d’altri tempi, la cui prossima fine è raccontata con ironica levità. La struttura del libro, fatto di brevi capitoli, il più lungo dei quali supera di poco le dieci pagine, ne fa un ottimo libro da comodino che ci libera dalla tensione fisica accumulata durante il giorno e ci traghetta alla pace del sonno. E credetemi: è un gran bel complimento. Io l’ho letto per un mese, poche pagine prima di addormentarmi, e un giorno ho fatto un sogno: io e Tim passeggiavamo per un sentiero di campagna, dopo esserci lasciati alle spalle il caos della città, e stavamo a braccetto, mentre il sole tramontava. Parlavamo di clima, mare e vino, e non potei fare a meno di chiedergli a quale comunità appartenesse uno scrittore, nel mondo globalizzato di oggi.

Tim mi sorrise e rispose: “Alle sue suole”.

E continuammo a camminare.

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG