In una lettera ad Alessandro Spina, è il 1964, Cristina Campo scrive dell’“orrore della solitudine”, del “terrore della compagnia non perfetta”. Scrive che “stavolta sono davvero malata”: preda di strane agnizioni, di profetiche trafitture. Sente che il padre è roso dalla malattia. Morirà l’anno dopo, Guido Guerrini, sulla soglia dell’estate. “Mio padre è morto con tanta amabilità, quasi in mezzo ad una conversazione”, scrive CC ad Alejandra Pizarnik, in un carteggio costellato da ricorrenti informazioni sulla malattia del genitore (ora in: “Cara amica, la patria è la lingua”. Lettere di Cristina Campo ad Alejandra Pizarnik 1963-1970, a cura di Stefanie Golisch, Magog, 2023, edizione fuori commercio).
L’inquietudine di Cristina Campo prende le sembianze di una tigre nella stanza. Così ne dice ad Alessandro Spina:
“…e io piango e tremo ed è come se nella stanza quieta, dove tanto vorrei studiare e scrivere, giacesse nell’angolo una tigre battendo la coda, ritmicamente”.
L’immagine della tigre che batte la coda, a ritmo, dando tono e danza al giorno, ritorna poco dopo, nella stessa lettera:
“…ma non sono questi i dolori che ci salvano ancora, che ci tolgono per un attimo la percezione della tigre nell’angolo, con la sua coda che batte, batte ritmicamente?”
(in: Cristina Campo-Alessandro Spina, Carteggio, Morcelliana, 2007, pp. 142-143)
La tigre all’angolo, che ritmicamente batte la coda. Come se fosse un demone, un monito.
Nel giorno di Natale del 1964 era mancata, alla Campo, la madre. Così ne scrive, Cristina, alla Pizarnik:
“La notte di Natale, Alejandra, ho perduto (o trovato) mia madre. Era mezzanotte e mezza, tutte le campane di Roma suonavano. Degno di lei, mia piccola principessa umile e altezzosa. Da dieci giorni era muta. Anche questo è degno di lei. “Non parlava mai, mai di sé” dice Elémire, il quale non l’ha lasciata nemmeno un istante, né prima, né dopo questa ora d’Avvento”.
Pro patre et matre Cristina Campo dedica la sua poesia più nota, La Tigre Assenza. Assenza è il testamentario epiteto della belva che “ha tutto divorato”. La belva che attacca alle spalle, quando siamo deboli e ci è tolta ogni cosa, rassegnati alla latitanza – la belva che non uccide noi ma il resto, uccidendoci per soffocamento. La belva dell’Assenza che conduce a sé i suoi cuccioli, caustici accoliti: Rammarico e Rancore. La poesia di Cristina Campo è pubblicata su “Conoscenza religiosa” nel numero di luglio-settembre del 1969; sappiamo però che La Tigre Assenza è stata scritta poco dopo la morte del padre, nell’estate del 1965, perché la Campo ne invia copia dedicata “ad Alejandra Pizarnik”.
Nell’immaginario biblico – per diversità faunistica – è assente la tigre; pullulano i leoni. Gesù, “Germoglio di Davide”, è detto “il leone della tribù di Giuda”; secondo Il Fisiologo, “Cristo nostro è il leone spirituale vittorioso”. La tigre, invece, tiranneggia nella zoologia simbolica d’Oriente: Milarepa, sommo sapiente del Tibet, si definisce “una tigre fra gli uomini”:
“Munito del manto striato di metodo e saggezza indivisibili,
ho vissuto nelle valli erbose e nelle foreste della chiara luce,
sperando di giungere al frutto del bene altrui”.
La tigre di Cristina Campo, però, non è immagine della potenza divina, icona d’illuminazione. C’è qualcosa di umano in lei, una prossimità che odora di puro e di fetido. La Tigre Assenza di Cristina Campo è il distillato della Belva nella giungla di Henry James. La “caccia alla tigre” descritta nel mirabile racconto di James, è con i propri sentimenti, braccati, allontanati, fuggiti. L’amore: tigre che ti azzanna quando non c’è più, agnizione tremenda. Il gioco di reticenze e di incombenze, di fraintesi e di assenze termina, come è ovvio, in massacro: “la bestia in agguato” agguanta John Marcher quando la donna che ha amato – senza convincersi di amarla –, May, è morta da tempo.
C’è, credo, tra le catacombali, catartiche ispirazioni di Cristina Campo – a proposito di argentine visioni – anche un racconto di Julio Cortázar – intimo amico della Pizarnik – Bestiario. Nel racconto – che dà il titolo alla raccolta pubblicata nel 1951 – la protagonista, la tigre, c’è, è ovunque, ma rimane invisibile, di fatto assente. La tigre vaga nella casa dei Funes, si cela dietro ogni ombra, tiene tutti sotto ricatto: è incombente, onnipossente – l’assenza dilata il pericolo in una condizione di vita condivisa. La tigre divora i cuori prima di avventarsi sulle carni.
Di fronte “al celebre domatore Burson”, la tigre di Franz Kafka non emette ruggito né lamento: “Sbadigliò un poco, si guardò stancamente intorno e si addormentò di colpo”. La tigre non si può addestrare: dovremmo domandarci cosa sogna. Tuttavia, la tigre che si chiama Assenza, quella postulata dalla Campo e di cui ravvisiamo il canone in Henry James e in Cortázar, ha più a che fare, restando nel bestiario kafkiano, con l’“animale grande più o meno come una martora” che abita la “nostra sinagoga”. Quella belva, sfuggente, a tratti innocua, spesso invisibile, di cui i fedeli vogliono liberarsi, forse, è figura messianica: l’animale che precede i costruttori del tempio, ha paura – ha paura delle preghiere degli accoliti. Nessun avvento sa badare l’attesa, dare biada d’oro a chi attende.
Il tema – semmai esiste in questo vagabondaggio ferino – è quello del rapporto, gemellare e opposto, tra la tigre e l’uomo. Nella letteratura recente, è forse Jorge Luis Borges il più abile cacciatore di tigri. La sua tigre ricorrente – rispetto a quella pronunciata da William Blake nel celebre song of experience, “un fuoco che splende, eterno archetipo del Male” – ha colori nottambuli, è blu, sovente azzurra. Alle Tigri azzurre, Borges dedica un racconto di glaciale raffinatezza, fuoco che porta a saturazione il felino:
“Sognai di nuovo la tigre azzurra: incedeva proiettando la sua ombra sul terreno sabbioso”.
Il testo è pubblicato da Franco Maria Ricci in Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti: in copertina, la spiritata tigre emerge da un fervore di giunchi per divorare la rosa in primo piano. Eroina del suo personale bestiario, la tigre invade ogni anfratto dell’opera di Borges: L’oro delle tigri è un libro tardo, dedicato al felino, in sua assenza. La tigre più bella, la più commovente, tuttavia, appare in Storia della notte: è quella che Borges, insieme alla sorella Norah, videro un mattino, nel quartiere Palermo, a Buenos Aires. “Delicata e fatale, carica di infinita energia”, la descrive Borges, “fatta per l’amore”. La tigre in gabbia, in assenza di giungla, è un paradosso: come puoi ridurre la nobile belva alla mercé degli sguardi altrui? Già: più la guardi, ignaro, più la belva cresce dentro di te, invade le gore del sogno, la gola, già ti sta divorando.
Quando la tigre ti agguanta è per amare: che l’amore uccida, si faccia cibo, è un fatto.
Il legame misterioso tra l’uomo e la tigre. Borges diventa adulto fissando la tigre. Mowgli si trasforma da “moccioso della giungla” a re della giungla dopo aver ucciso Shere Khan, la “tigre-fantasma” che si palesa per ammazzare l’uomo. La tigre anela l’uomo, per saldare una vendetta, perché un legame li sancisce; forse la tigre, un tempo, era uomo: Mowgli può uccidere l’onnipotente belva soltanto tramite lo stratagemma. Allo stesso modo, Dersu Uzala, il goldi raccontato da Vladimir Arsen’ev e immortalato da Akira Kurosawa, parla alla tigre, nelle immense foreste dell’Ussuri, convincendola a ritirarsi:
“Dersu si fermò e, voltatosi dalla parte dove s’era nascosta la tigre, gridò forte, e nella sua voce io colsi come una nota di sdegno: “Perché tu camminare dietro?… Cosa essere te necessario, Amba? Noi andare per nostra strada, non ti disturbare. Perché tu camminare dietro? O nella tajga poco posto?”
Egli agitò in aria la sua carabina. Così eccitato non l’avevo mai visto. Nei suoi occhi c’era la sicurezza che la tigre avrebbe sentito e compreso le sue parole. Era sicuro che la belva o avrebbe accettato la sfida o ci avrebbe lasciati in pace e se ne sarebbe andata. Passarono circa tre minuti e il vecchio tirò un sospiro di sollievo, accese la pipa e, gettatasi la carabina in spalla, si avviò tranquillo e sicuro per il sentiero. Il suo volto era tornato ad essere quello di sempre: teso e indifferente nello stesso tempo. Aveva svergognato la tigre e l’aveva costretta ad allontanarsi”.
Uccidere la tigre, uccidere un dio, è gloria che si deve scontare. La tigre è l’assenza che si fa presente soltanto quando ti ha sbranato. Tutto è un agguato.
Horacio Quiroga, il grande scrittore argentino, ribalta il canone di Kipling inventando il profilo di Juan Darién la “tigre che fu allevata ed educata fra gli umani”, ma che infine smette la giacca e rientra nella giungla. La tigre di nome Juan depone il nome, torna pura Assenza, la via negativa del bestiario: quando è presente, non è che animale ornamentale, da educare; togliamo da lui ogni grammo di ‘tigrità’, il balsamo della ferocia, che resti tigre d’osservanza, obbediente, d’innocuo nitore.
Forse l’assenza è la vera conquista.
Un grande poeta messicano, Eduardo Lizalde, era letteralmente ossessionato dalla belva, a cui dedica una serie di libri: El tigre en la casa (1970), Memoria del tigre (1983), Tigre, tigre! (1985), Otros tigres (1995). Una selezione dei testi di Lizalde è edita da Raffaelli come Memoria del tigre (2016). È un’invasione: quando la tigre si mostra, pure per un istante, è come se nascesse il sole. Senza di lei, siamo soli.
Una delle prime poesie di Lizalde – specie di esegesi a unghiate – s’intitola, appunto, El tigre, il tigre, e riassume un po’ tutti i temi fin qui scuoiati:
“C’è un tigre nella casa
che dilania chi lo guarda.
Ha artigli solo per chi spia,
può ferire soltanto dentro
ed è enorme:
più largo e pesante
di ogni altro grosso felino
di ogni altro pestilenziale carnivoro
della sua specie:
perde la testa con facilità
annusa il sangue attraverso il vetro
percepisce la paura che dilaga in cucina
nonostante le porte siano robuste.
È solito crescere di notte:
poggia il suo cranio da tirannosauro
sul letto
il muso sbanda
oltre la trapunta.
Il suo dorso, poi, occupa il corridoio
da muro a muro:
riesco a raggiungere il bagno soltanto strisciando contro il soffitto
come attraverso un cunicolo
di melma e miele.
Non oso fissare quell’alveare solare
i neri favi del crimine
nei suoi occhi
il crogiolo della saliva avvelenata
che pende dalle fauci.
Non lo sento
dunque, non mi uccide.
Ma so con certezza
che un immenso tigre è racchiuso
in tutto questo”.
Nella poesia di Lizalde, la tigre – il tigre – sembra il contrario di quella di Cristina Campo, di Henry James, di Cortázar: non è assente; occupa ogni spazio, è ubiqua la sua obliquità. La casa è invasa dalla tigre. Eppure: la totale presenza equivale all’assenza – il crine del pericolo è lo stesso. Il Tutto è Nulla; il Nulla è Tutto. Per carpire il Tutto devi eliminare tutto. La casa descritta da Lizalde non è educata da alcun arredamento perché la casa stessa è il tigre. Insomma: non si tratta di “cavalcare la tigre” ma di abitarla.
Fasciati dal sole estivo, che rende le finestre cutanee e la casa fittizia, è un privilegio vedere la tigre in un angolo, che rotea la coda. Consegnatele la vostra stanza. Emblema della nostra vita, la tigre appena scorta, prima che il demone progredisca annientando tutte le ombre, tutte le fugaci apparizioni.
In questi giorni di stelle che cadono, di Perseidi che si rendono tigrato il cielo, tutto si muta in tigre. “Siamo Perseidi: una frode celeste”, dice una bella poesia di Federico Italiano (in: Habitat, Elliot, 2020). Alla fine, del cosmo, scuoiato con raffinata dedizione – che tu abbia dedizione del dolore altrui – resterà l’appariscente osso.