“Io, l’irrequieto, prendo al laccio le stelle”. Sulla poesia di Conrad Aiken
Poesia
Giorgio Anelli
L’incipit più sinuoso della poesia occidentale moderna è anche quello meno poetico. Risillabiamolo. Time present and time past/ Are both perhaps present in time future,/ And time future contained in time past. Conclusi 75 anni fa, pubblicati in un unico volume nel 1943, i Quattro quartetti sono l’opera somma di Thomas S. Eliot, il Tiranno della Letteratura Occidentale. Se La terra desolata, col senno del 2017, ci appare come un tipo che si ostina a girare per il mondo con bastone dal pomello a forma di pellicano, bombetta, baffi all’insù e sigaro conficcato in bocca, i Quattro quartetti sono una realizzazione definitiva e apicale, qualcosa che ha a che fare con il principio di indeterminazione di Heisenberg, con l’allunaggio, con la scoperta dell’acqua calda in ogni rubinetto del quartiere. Insomma, i Quattro quartetti sono la terra di non ritorno della poesia, l’istante in cui la poesia, al di là della poesia – ma ogni atto poetico è in sé gettato nell’al di là, ogni poesia è la morte della poesia – si fa sapienza, libro sacro, conquista dell’enigma. Esempi sparsi. “Cio che soltanto vive/ può soltanto morire”; “Nel mio principio è la mia fine”; “Attendi/ senza pensiero, perché tu non sei pronto/ per pensare”; “A questo/ serve la memoria: per la liberazione – non meno/ amore ma espansione”. Questa non è poesia, è Tibet filosofico. Eliot – come se fosse un Guido Gozzano all’ennesima – mescola trivialità e teologia, le Pagine Bianche ai discorsi del Buddha, il volantino pubblicitario alla Città di Dio. Scritti all’ombra di Eraclito e con la Bibbia sotto braccio (ma, per fortuna, “non si dimentichi che spesso Eliot fu posseduto da un se stesso ben più profondo e illuminato di lui”, questo è Angelo Tonelli), i Quattro quartetti sono una specie di totem, un monolite negro, inciso con stilo intinto nell’oro. Ma… davvero Eliot, che ha marcato i gusti poetici e lo sguardo critico sulla poesia nel Novecento, è ancora il cannibale Tiranno della Letteratura Occidentale? Per capirlo, vale la pena leggere la nuova versione dei Quattro quartetti – un testo che andrebbe costantemente ri-tradotto – perfezionata da Elio Grasso per l’editore Raffaelli (il libro lo vedete qui), dopo una prima edizione Palomar del 2000. Grasso, che ha una certa affinità con i titani inglesi – ha tradotto alcuni Sonetti di Shakespeare per Barbès – e con gli eccentrici – per Via del Vento ha curato una selezione di testi dell’‘italiano in America’ Emanuel Carnevali, si confronta con traduzioni precedenti nobilissime, quella di Filippo Donini, di Angelo Tonelli e di Roberto Sanesi. Una ‘sfida’ affascinante. Parere mio: bisogna decapitare il Tiranno. Thomas S. Eliot è un genio. Noi siamo chiamati a fare meglio, a dettare il poema del prossimo millennio.
Intanto. I Quattro quartetti. Come è nato l’intento di tradurre uno dei testi capitali (e più ardui) del Novecento?
“È nato da un’antipatia. E da una giovinezza. A quel tempo trovavo detestabile la Waste Land (la si trovava tradotta da Mario Praz), uno spazio poetico consumato e tronfio che per fortuna, leggevo sui testi, era stato profondamento ‘tagliato’ da Pound (che per questo mi sembrava un tipo simpatico). Insomma un pasticcio che non m’interessava. Non capivo, inoltre, come Eliot potesse da certi critici essere proposto accanto a Montale. Ma come ho detto, ero giovane. E ignoravo i Four Quartets. Molti anni dopo li lessi, in un libretto Faber & Faber e nella traduzione personale condotta dall’amico e maestro Roberto Sanesi, pensando che tradurli fosse una partita invincibile. E infatti Sanesi mai pubblicò in vita la sua versione (uscì postuma in un’edizione curata da Book Editore). E dato che le partite invincibili, a torto o a ragione, fanno sempre parte della vita di chi scrive o si occupa di poesia, nella primavera di una ventina d’anni fa ho iniziato a ricamarci sopra. E a scoprire vocaboli (dizionari alla mano) che potessero intendersela con il testo eliotiano. Scelte di gusto e di ‘orecchio’, sia chiaro, più che di valide ragioni accademiche. Anche impulsive, talvolta. Spesso l’azzardo di rincorrere metriche e assonanze, che in quel momento suonano meglio di altre, ha a che fare con un lieve piacere fisico”.
Poi. Che valore ha, oggi, quel poemetto? Valore etico ed estetico, intendo. Di cosa ci parla?
“Di fronte alla povertà lessicale e strutturale di molti degli attuali lavori ‘poetici’, la risposta a questa domanda mi sembra scontata e inevitabile.
Riguardo ai Four Quartets in sé, la meditazione sul tempo e la terra (intesa come luogo geografico e luogo di nascita e morte) dovrebbe essere sempre attuale e perseguita, anche con assoluta prevalenza. Ma oggi si preferisce buttare l’occhio sui propri tavoli di cucina e sul commemorativo narcisismo ‘sociale’”.
Entriamo nelle scelte traduttive. Tu hai scelto di competere con autorevoli interpreti come Filippo Donini, Roberto Sanesi, Angelo Tonelli. Operando scelte particolari. Ne segnalo due. L’indimenticato ‘Tutto il tempo è irredimibile’ nella tua traduzione suona ‘tutto il tempo non è riscattabile’. L’ultimo verso della prima sezione di Burnt Norton, ‘mirano a un solo fine, che è sempre presente’, per te è ‘puntano a un intento, sempre presente’. Ecco, come giustifichi la tua traduzione: c’era bisogno di una nuova traduzione di Eliot, al di là di un proprio virtuoso esercizio personale? E poi, quali sono state le scelte più radicali?
“Nessuna competizione. Se mai la lettura in parallelo. Un aiuto necessario alla mia disposizione verso il testo. Certe soluzioni geniali, quando ci sono, sono contagiose. Così come altre soluzioni, anche banali, aiutano a rifuggirle. Come ho detto, i dizionari incitano a immaginare e a nutrire la passione. Riguardo al termine ‘irredimibile’ non mi sembra così diverso da ‘non riscattabile’. E visto che quasi tutti avevano usato il primo, mi è parso che già questa fosse un’ottima ragione per cambiare. Senza contare che nella legatura metrica e fonetica dei primi otto versi tradotti era sicuramente migliore il secondo. Stesso discorso vale per l’ultimo verso della prima sezione di Burnt Norton. È certo poi che ogni traduzione è ‘personale’, e lontana per quel che mi riguarda dai virtuosismi. Se le mie scelte fossero state identiche, o quasi, a quelle degli altri traduttori, la nuova edizione non avrebbe avuto senso. Inoltre, se devo dirla tutta, di solito preferisco assecondare l’autore e il testo originale invece che aggiustare le cose in modo stiracchiato e di certo biasimevole nella lingua italiana. Così come nella traduzione dei Sonetti di Shakespeare, preferisco alleggerirmi su invenzioni estemporanee, anche lontane da caute ‘ragionevolezze’. C’era bisogno di una nuova traduzione di Eliot? Non mi affanno sulla questione, se è tale. Personalmente era seguire una mia austerità. E forse ‘comprendere’, invece che declamare ‘cosa vuol dire’, evitando quel che Nanni Cagnone definisce ‘malsano senso di superiorità’ quando un traduttore diventa troppo ansioso”.
Quali sono stati i tuoi riferimenti (studi, autori) durante la traduzione? Che tipo di linguaggio hai scelto di forgiare per Eliot?
“Ho già nominato autori e riferimenti. A questi posso aggiungere Massimo Bacigalupo, per l’onnivoro suo lavoro di anglista soprattutto riguardo all’opera di Wallace Stevens. Inoltre non ho scelto un linguaggio, se non quello che mi porto dietro (anche grazie a Eliot) da diversi decenni. Quindi, se vogliamo, i conti tornano”.
Tentiamo di perforare il ‘canone’, se ancora esiste. Davvero Thomas S. Eliot è ancora la chiave di volta della poesia occidentale del ’900? Perché? E in Italia, oggi, si continua a poetare a casaccio o intravedi qualcosa di così possente, di così urgente e risolto, con le dovute differenze, avvicinabile all’opera di Eliot?
“Si continua a poetare a casaccio. Ci sono alcuni autori che provano a mostrare una certa generosità verso le parole e le cose. Ci sono autori, pochi per la verità, che hanno avuto un dovere risolto, e una poesia conseguente. I nomi li ho spesso fatti, in altre sedi. Ma niente che possa produrre un canone a valle del Novecento. Per questo Eliot, Montale e Rosselli sono ancora raggiungibili e leggibili oggi. E, si spera, studiabili senza pensare di avere a che fare con un morto”.
Per gentile concessione pubblichiamo la prima parte dei “Quattro quartetti” di Thomas S. Eliot nella traduzione di Elio Grasso, editi da Raffaelli (Rimini, 2017)
Burnt Norton
I
Tempo presente e tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro,
il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
Se tutto il tempo è eternamente presente
tutto il tempo non è riscattabile.
Quanto poteva essere è un’astrazione
che rimane come perpetua possibilità
soltanto in un mondo d’indagini.
Quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.
Eco di passi nella memoria
nei passaggi dove non c’incamminammo
verso la non spalancata porta
sul roseto. L’eco delle mie
parole, nei tuoi pensieri.
Per quale scopo
sollevino polvere da una coppa di foglie di rosa
io non so.
Altri echi
abitano il giardino. Vogliamo seguirli?
Presto, disse un uccello, trovateli, trovateli,
oltre l’angolo. Attraverso il primo cancello,
nel nostro primo mondo, seguiremo
il tranello del tordo? Nel nostro primo mondo.
Erano là, degni, invisibili,
passavano leggeri sulle foglie morte,
nel tiepido autunno, nell’aria vibrante,
e l’uccello chiamava, rispondeva
a una musica mai sentita e nascosta nel bosco,
attraversava uno sguardo mai visto, poiché le rose
avevano l’aspetto di fiori ben studiati.
Erano là come nostri ospiti, accolti e accoglienti.
Così andammo con loro, solennemente,
per il viale deserto, fino alla rotonda,
a guardare lo stagno prosciugato.
Dapprima arido, solido e bordato di scuro,
lo stagno sotto il sole si riempì d’acqua,
lentamente spuntarono i fiori di loto,
la superficie brillò sotto il cuore luminoso,
ed essi, dietro di noi, vi si rispecchiarono.
Passò una nuvola, e lo stagno si svuotò.
Andiamo, disse l’uccello, tra le foglie frotte di bimbi
si nascondevano eccitati, trattenendo le risa.
Via, via, andiamo via, disse l’uccello: gli uomini
non sopportano troppa realtà.
Tempo passato e tempo futuro
quanto poteva essere e quanto è stato
puntano a un intento, sempre presente.