A proposito di “buone traduzioni” e di “buona editoria”. Dieci anni fa “La montagna incantata” di Thomas Mann si trasforma in “magica” (ma è semplicemente “stregata”)
È successo non molto tempo fa. Mi stavo godendo una bella intervista di Lugi Mascheroni a Renata Colorni, da poco in pensione, ma a lungo alla direzione della prestigiosa collana mondadoriana dei ‘Meridiani’, quando sul tema “buone traduzioni/buona editoria”, leggo ed ho come un sussulto. La signora, che è stata anche traduttrice, ricordando l’“esperienza fondamentale” del legame strettissimo “tra una buona traduzione e la buona editoria”, dice: «Si è mai chiesto perché spesso i libri che pubblica Adelphi non sono nuovi, ma titoli già usciti da anni? […] Perché la qualità delle traduzioni – oltre alla veste grafica Adelphi, naturalmente – li rende dei libri nuovi. È una regola ferrea: se fai delle buone traduzioni, fai una buona editoria, anche commerciale». Da qui il sussulto, alimentato dalla mia fresca vivisezione del Franz Kafka tradotto da Anita Rho in Il messaggio dell’imperatore (Adelphi). Si dica pure che quella, per esempio, è stata una buona azione commerciale, visto che si è arrivati alla decima edizione, ma non una “buona traduzione”, dunque neppure “buona editoria”.
Da quel momento i miei pensieri si sono inerpicati improvvisamente lungo le pendici di una strana e insidiosa montagna… e dalla sua cima ho rivisto, lontana dieci anni fa, la Colorni traduttrice alle prese con una delle sue grandi imprese: Der Zeuberberg, il romanzo di Thomas Mann, per i ‘Meridiani’ appunto. E mi è venuto da rimestare intorno al nuovo titolo italiano, da lei fermamente voluto: La montagna magica(non più incantata).
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Che quella della Colorni e di Luca Crescenzi (il curatore) sia stata una grande impresa editoriale nessuno può dubitare. E del resto, senza nulla togliere alla versione storica di Ervinio Pocar, dopo l’edizione critica, cosiddetta “francofortese”, voluta dall’editore tedesco Fischer nel 2002, una nuova versione in qualche modo s’imponeva. Con un nuovo titolo: la montagna da incantata doveva diventare magica, anche per allineare la traduzione, come sostiene la Colorni nella sua nota, a quella di altre parole composte (“flauto magico” per Zauberflöte, “lanterna magica” per Zauberlanterne e così via).
Pur riconoscendo l’importanza di attribuire, così facendo, un valore “attivo” alla montagna, qualche dubbio sulla scelta fatta s’imponeva, e s’impone ancor più ora, e proprio in virtù dell’ambiguità del termine zauber.
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Tra coloro che ne hanno scritto, il solo Andrea Casalegno ha ricordato che la montagna manniana “più che incantata è ‘incantatrice’”, dunque “a voler essere precisi, dovremmo definirla ‘stregata’”. La stessa Colorni lo ammette, perché, riconosce, essa può suscitare incanto, “ma anche sortilegio e maleficio” e del resto “nel corso della narrazione assistiamo ad una vera e propria iniziazione”, quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp, il personaggio principale del romanzo, con l’accrescimento e il potenziamento alchemico prodotto da “ermetica magia” (così la definisce lo stesso autore).
Alla fine tuttavia anche Casalegno rese plauso alla scelta della Colorni, perché “la magia può essere bianca o nera, buona o cattiva”, dunque “magica è aggettivo aperto alla libera interpretazione del lettore”. Ma è proprio questo che non convince: l’interpretazione neutra, attraverso la stessa scelta del titolo, di una storia che dalla prima all’ultima pagina narra di una progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’“orribile danza” e da quella “voluttà smaniosa e maligna” che è la prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio di Castorp.
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Proviamo a presentare il romanzo per quello che è: La montagna magica racconta la caduta del suo eroe in una sfera satanica, al cui influsso egli infine s’abbandona. Lo stesso Mann, del resto, nell’agosto 1914, quando era appena al primo capitolo, scriveva all’editore Samuel Fischer a proposito del “contrasto tra le tendenze civili e demoniache presenti nell’uomo”, indicandolo come il problema da cui si sentiva dominato interamente e da tempo. Il mondo in cui viene introdotto Hans Castorp è il mondo del diavolo, e questo il narratore lo lascia intendere, seppur discretamente, fin dall’inizio. Basta seguire il “giovane uomo come tanti” mentre fa una capatina in montagna. Lì il primo ad accoglierlo nel nuovo regno è un uomo in livrea: il portiere del Sanatorio Internazionale ‘Berghof’. Questi possiede una piccola qualità, ma decisiva: “zoppica vistosamente”. Il lettore che non sapesse che lo zoppicare è un tradizionale attributo del diavolo viene edotto da Settembrini, che definisce il portiere “diavolo zoppicante”. La prima persona che Hans incontra è dunque una figura diabolica. Tutt’altro che secondarie sono poi le invocazioni e i modi di dire riferiti al diavolo, poiché ciò che appare come semplice interloquire mira in realtà a ciò che vi è di più intimo nel romanzo. Tutte le figure risultano poste sotto una doppia luce: Settembrini viene chiamato “Satana”, poiché tiene di fronte a Castorp un discorso sul suo maestro Carducci e sul suo “Inno a Satana” e del suo avversario, Naphta, lo stesso Settembrini dice essere “assistito alle spalle” dal diavolo.
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Al centro del romanzo, nel capitolo “Neve”, quando interiormente le “terre basse” gli sono già diventate estranee, Castorp intraprende un’escursione solitaria, incappando così in una tempesta di neve. Prossimo alla morte per congelamento, ha una visione, grazie alla quale vede anzitutto una scena idilliaca di vita di spiaggia. La scena poi cambia e con il cuore pesante e con un oscuro presagio entra in un tempio e vede qualcosa di orribile: “Due donne grigie, seminude con i capelli scarmigliati, i seni pendenti da streghe […] dilaniavano un bimbo piccolo sopra un bacile […] in un silenzio selvaggio”. Hans vorrebbe fuggire, ma non può, finché non si risveglia dal sogno e giunge alla conclusione di non voler concedere alla morte alcun potere sui suoi pensieri. L’intento però scompare subito dopo il ritorno di Castorp nel sanatorio. Secondo la critica, il sogno terrificante attingerebbe alle Baccanti di Euripide e a La nascita della tragedia di Nietzsche. Nel sogno il dionisiaco sarebbe contrapposto all’apollineo. Ma davvero si spiega così il lugubre rituale? Lascena sembrerebbe isolata e davvero mal legata con il resto del romanzo; in realtà proprio il fatto che Castorp sia stato testimone di una messa nera rende la scena intimamente inserita nella storia. Ma per Crescenzi, ossessivamente teso a dimostrare le ascendenze freudiane de La montagna magica,il sogno del banchetto di sangue è “in verità, un sogno erotico”.
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Dopo la notte d’amore trascorsa con Claudia Chauchat, l’essere androgino, Castorp non potrà più lasciare la zona demoniaca. Il demoniaco d’ora in poi non si nasconde più nei modi di dire, piuttosto viene portato apertamente alla superficie della storia e Castorp inizia a partecipare a sedute spiritistiche. Subito dopo l’ultima, nella quale appare il nipote Joachim, nel frattempo morto, seduto su di una sedia con le gambe accavallate, il ‘demonio’ inizia ad essere chiamato per nome e non resterà ancora a lungo nascosto il fatto che sia lui il signore dei personaggi sopra citati. Did you ever see the devil with a night-cap on? è il nome dello sciocco gioco di società con cui s’intrattengono gli ospiti inglesi del luogo di cura. Ben più che un gioco, esso è il signum del potere sotto il cui influsso il “Berghof” è definitivamente caduto.
Il grande ebetismo regna, si sviluppa, diventando infine grande irritabilità, finché Naphta si suicida sparandosi un colpo in testa. Castorp sembrerebbe essere liberato da quel potere malvagio in virtù del tuono della catastrofe storica che si va imponendo (il risveglio da quel lungo sogno che è stato il romanzo fino a questo momento, secondo Crescenzi). È scoppiata la guerra mondiale e Castorp è stato arruolato e arranca sui campi insanguinati delle Fiandre. Mann può finalmente chiudere la parentesi aperta con il portiere del “Berghof”: mentre una granata scoppia davanti a lui, “come il diavolo stesso nella profondità del terreno”, ora anche Castorp “avanza zoppicando”. “Il diavolo stesso, personificato”, ha scritto il critico Michael Maar, citato da Crescenzi per altri contributi, ma non per questo, “spara nell’inferno che si spalanca alla fine del gigantesco romanzo.”
Insomma, anche in quel caso forse più una “buona azione commerciale”, la scelta voluta allora dalla Colorni con il nuovo titolo, che una “buona traduzione”.