La poesia è la fucina fondamentale, la lotta con il boia, il tentativo di voltare la ghigliottina in acquazzone. I grandi scrittori del secolo, quelli che hanno innovato il romanzo – William Faulkner, James Joyce, Ernest Hemingway, Hermann Broch – sono passati per la prova poetica. Poi – per fortuna – hanno capito di non essere poeti, la bestia della propria, singola, ossessione li ha dilaniati altrove. Ma non è quello il punto. Il punto – credo – è che la poesia è il luogo privilegiato dell’esplorazione linguistica, dove tutto esplode, è palestra per rampicatori e speleologi. Anche Thomas Bernhard comincia come poeta: tre raccolte, pubbliche, In terra e all’inferno, In hora mortis, Sotto il ferro della luna, pubblicate quando aveva 25 anni, tra il 1957 e il 1958. Nel 1963, con Frost (“Gelo”) la scelta è compiuta, definitiva: poiché “la prosa gli consentiva maggiori possibilità di sviluppo, dalla fine degli anni Cinquanta Thomas Bernhard abbandona la poesia” (Josef Donnenberg). Ritornandovi nel 1981, sporadicamente, con Ave Vergil. Gli autori ‘ambidestri’ – che praticano con eguale grandezza prosa & poesia – non esistono, ne troviamo alcuni nel mondo inglese, più pronto alla poesia narrativa (Melville, Thomas Hardy, Rudyard Kipling, Raymond Carver…), in ogni caso, anche gli esiti più felici (in Italia: Giovanni Testori, Federigo Tozzi, in parte, Cesare Pavese; ma basta leggere l’indisciplinata docenza di Manzoni & Leopardi; in Sudamerica Jorge Luis Borges, in Russia Boris Pasternak e Andrej Belyj) sono visti con sospetto: occorre classificare, stare di qui o di là, senza ‘invasioni di campo’, facilitando la vita ai burocrati della critica. Ma non è questo, appunto, il punto. Stare dentro la poesia è abitare una stanza piena di specchi, spaccarli, uno dopo l’altro, e misurare l’entità dei riflessi per barlumi ed equazioni equine, lambire la distanza tra ferita e cielo. È uno spazio di disciplina, cioè, che fa nascere al linguaggio, fa capire che anche la prosa, prima di tutto, è ritmo, musica, moto, nota. Poi, semmai, arriva la trama, la storia.
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Ancora con il marchio Crocetti ma in proprietà Feltrinelli esce Sotto il ferro della luna, l’ultima raccolta del Bernhard autenticamente poeta, del 1958, nella traduzione di Samir Thabet, uscita in origine cinque anni fa. Bernhard riprende alcuni caratteri della poesia bucolica e li intinge nel sospiro e nella disperazione. Il linguaggio è fermo, lucido, da cecchino: di ogni cosa, però, si osserva il punto di morte, l’estenuata estate. Mi pare che i modelli siano due: Georg Trakl per l’atmosfera azzurra e moribonda e Virgilio. Già. Bernhard ha un passo ‘classico’, inamovibile – odia il pathos, non cerca l’empatia, tanto meno il vizio retorico. Il mondo naturale a cui si riferisce – stagioni, lune, soli, pesci, alberi, erba – è quello delle Bucoliche e delle Georgiche: solo che qui il miracolo è putrefatto, capovolto. Non c’è gioia né virtù nella venerazione per l’inquieto – occorre ricordare che il mito di Orfeo, dedotto da Virgilio, insegna che il poeta è quello che scende tra i morti, che è tramortito dal desiderio, e che perde, letteralmente, la testa, spiccata dalle Baccanti. Anche l’aureo Virgilio sapeva succhiare sangue – di Orfeo, poi, c’è chi dice la dolce caduta, come Rilke, chi il macello avvenuto, come Bernhard.
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1
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
volgiamo lo sguardo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le intemperie consumano
davanti alla porta le nostre scarpe infangate.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.
*
5
Su nei monti le stelle sorprendono la pioggia scalpitante
quando tocchi le labbra della mia miseria
e sotto il campanile
sul talamo invernale
decidi quando rintoccherà l’orologio che si sfalda.
Le bocche si beano del fiume del grano,
silenti brillano i ruscelli
nelle voci della notte di luna
che salgono da pozze abbandonate
verso mari prosciugati dalla sete.
Spargi ai gabbiani il sale dei tuoi occhi,
ma
apri ciò che hai soffocato nelle estati
mai odorate
e dissolviti nella bocca della mia ferita.
*
40
Arrivano i miei figli
quando il sole cade a pezzi con un sospiro
per vedere le arance
che pendono sotto le tegole della mia capanna
e fanno risuonare i loro volti come campane.
Dove cresce la tristezza al muro
mi canta il merlo nella pietra,
la morte lo ha mandato dai miei campi,
canta
e canta
nel nocciolo della silente notte di luglio.
Fra le travi precipitano nel mare i gabbiani
nell’allegrezza di cuori indomiti,
dai frutti dolci odo la voce dell’Oriente
di nuovo
nel sonno inquieto
che mi castiga con la luna abbandonata
e con l’acuto sibilo del serpente.
Thomas Bernhard
*I testi sono tratti da: Thomas Bernhard, “Sotto il ferro della luna”, Crocetti Editore, 2020; la fotografia di Thomas Bernhard è tratta da qui