02 Luglio 2020

“Bisognerebbe chiedere all’uomo che ha sempre fame”: Thierry Metz, il manovale della poesia

Manovale vuol dire lavoro di mano – non di fino, ma fatto fino a sfiancarsi. Il manovale è lo zero della mano, la mano che irradia le dita, sembra un sole – in pugno, serrata, è la serra dell’ira. Mano che si dona, quella del manovale, che porta ad altri – è mano che serve, a servizio. La mano ha la bellezza di un viso, la sapienza di un cervello – a volte si muove, grumo di lucertole, altre ha ragione di radice. Il copista non copia, mette la mano a servizio di un testo: fa vivere. La poesia è manovalanza: lingua non specializzata, verbi come sementi, gettati nel giallo del futuro. Il manovale vive nell’anonimo dei santi – sembra che non serva ad alcuno. Quando il poeta è grande, di sé è dimentico, mette il nome sotto uno stuolo di stracci bagnati.

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Bisogna guardare nell’alcova dei dettagli, perché la poesia ha questa competenza nell’aggiustare le cose umili, alta all’umiliazione. Diario di un manovale è un libro di Thierry Metz, il più noto, pubblicato nel 1990 da Gallimard. Edizioni degli animali – che di Metz ha pubblicato, due anni fa, lo straordinario Sulla tavola inventata – lo ha tradotto, ora, per grazia d’estasi di Andrea Ponso. “Il manovale, il muratore, distrugge per edificare il nuovo che non sarà mai sua proprietà: il suo nome non lascerà traccia. Proprio come accade per la poesia”, scrive Ponso che è poeta e conosce la Bibbia (ha tradotto il Cantico dei cantici e Qohelet). Il libro ricalca l’introduzione di Jean Grosjean, poeta importante e grande traduttore dalla Bibbia, per l’edizione Gallimard. “Vivere è qualcosa di terribilmente elementare. Ogni mattina l’anima si risveglia nuda, e il lavoro, il dolore, la gente, l’assenza sono in piedi, con le braccia incrociate, ad attenderla con un duro sguardo esaminatore. Ma ogni sera, quando non è anestetizzato dalla fatica, Thierry Metz trascrive la parte respirabile delle ore attraversate. Quello che ci pareva un universo di banale mediocrità si ritrova ad essere una meraviglia”.

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Il libro è “Per Danni Antonello”, e per i figli di Thierry, Guillaume, Vincent, Thomas. Quando si dice dedica ai dettagli, il rimando è ai vivi e ai morti – perché ogni nostro atto a questo mondo crea uno scavo che altri dovranno riempire, a costo di rimandare l’ultima parola al vuoto, al calco.

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La poesia è poesia perché non sa di esserlo. Thierry Metz ribalta la notevole tradizione francese del Journal, brivido cerebrale, agonismo dell’intelletto e agonia del verbo – da Marcel Johuandeau a Paul Valéry, da Simone Weil a Julien Green a Drieu e André Gide, non c’è scrittore con l’aureola che non abbia vergato, in favore dei posteri, il proprio ‘giornale’. Metz non ostenta, non grida, non resiste – esiste, piuttosto, esita, non ha nulla da dire, si destina a una presenza, priva di prestazione. Stai – appoggiati su di me, dice. “Scavare./ Spalare./ Un bambino comprenderebbe. Ma ci sono/ gli uomini che cercano qualche cosa…// Nessuno sa perché”.

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La retorica dipende dalla veglia, le sillabe hanno un peso in fiato, spesso la poesia è un sussurro, ambiguità del riposo. Accumulare nomi vuol dire trasferirli in una qualche resurrezione? La poesia di Metz ha la fermezza del sasso, la fierezza del pane. “1 agosto. Poco importa dove siamo. C’è il cantiere. Sempre. C’è qualcosa che non aspetta, la pietra, l’uccello, l’uomo. L’arcobaleno di tutto questo. Il dolmen”.

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La vita di Thierry Metz – nato a Parigi il 10 giugno del 1956 – è scabra. Non ha accoliti, non è accolto da una agorà di letterati; lavora. Si sposa a vent’anni con Françoise, abita in Garonna, in una fotografia, la più nota, ha la camicia aperta, le maniche sollevate al gomito, il viso quadrato e virile, una margherita all’occhiello. È forte, è stato un talento nel sollevamento di pesi – la vita passa per l’equatore delle mani. A 32 anni pubblica il primo libro, Sur la table inventée, per il leggendario Jacques Brémond; ma la poesia non sana il maleficio di una sinuosa depressione, assatanata dall’alcol. Quello stesso anno, il 1988, il figlio Vicent muore, travolto da una macchina, a otto anni. La ferita è una cesoia, dolore come un tuono: Metz percorre la via di lavori saltuari, procede per perpetui ricoveri in ospedale. Nel 1995 pubblica con Gallimard Lettres à la bien-aimée, nel 1997 L’Homme qui penche (tradotto nel 2001 dalle Edizioni Via del Vento). Quell’anno, due mesi prima di compiere 41 anni, Metz si ammazza. Con inesorabile lentezza, la sua poesia cruda e gentile diventa ‘di culto’, cosa che si dona. Come una sedia. L’editore Pierre Mainard, nel 2017, edita le Poésies 1978-1997, i versi sparsi e inediti di Metz, non raccolti in libro, “indispensabili”, vengono detti.

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Per un poeta la lingua è il punto esatto del creato: egli desidera che quando scrive “acqua” sentiamo l’acqua che ci scroscia addosso, che quando scrive thalità kumi qualcuno si alzi, perché tra noi e la morte è un pranzo interrotto per visitare il giardino e l’est della volpe, una rosa più in là. La poesia agisce – altrimenti, basta il romanzo, che racconta e distoglie. Quando è presente, desta, toccabile, fruscio di mano, come quella di Metz, bisogna tenerla sempre con sé, la poesia, in tasca. Apri, leggi – non si chiedere conforto, ma sconfinamento.

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Thierry Metz racconta la fatica – la vita, dice il Testo, è “fatica delle mie mani”, manovalanza. Il francese manoeuvre fa sentire, sul palato, la manodopera, il verbo come opera delle mani; la bocca porta secchi di verbi. Fatica porta nella radiografia etimologica il dissolversi, il mancare, le mani che si polverizzano, monchi. Siamo cenere che inargenta l’opera di un altro – “La costruzione è finita” (Le gros oeuvre est terminé) scrive Thierry Metz, sigillando il libro. “Domani inizieremo qualcos’altro”: il gesto ripetuto, privo di brama, inchinato, nel bronzeo della liturgia.

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Il sole, la via. E poi: due o tre uomini, dei rabdomanti forse. Non si sa.

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5 agosto. Ho visto questo stamattina: un piccione morto su un mucchio di rovine.
È segno di scrittura ciò che cade dall’albero.
Al manovale il gesto di raccoglierlo. Senza aspettare. Altrimenti come saprebbe che l’uccello dà forma alle sue mani? A quello che tocca?

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Ancora due o tre file di mattoni. Poi si puliscono gli attrezzi. Si passano le mani sotto l’acqua, ci si asciuga il viso. La giornata è finita. Tutto rimane là, nel fuoco. Gesti e parole. Ognuno saluta e se ne va. Si potrebbero catturare come gli uccelli, gli uomini, a quest’ora. Ma l’ala che ci porta è strattonata dal dio che ci fa segno, laggiù, sulla soglia: gli angeli del giorno.

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Mercoledì. Alba alle 4:51. Tramonto alle 18:57. La gente è andata a lavorare, lasciando solamente i vecchi e i morti nel labirinto. Non c’è niente intorno, solo nuvole e molto vento. E sempre lo stesso rumore.

Non si può dire dove sia andata la gente. Non si può rispondere perché bisognerebbe chiedere all’uomo che ha sempre fame. Al fulcro di tutto.

Thierry Metz

Da: Thierry Metz, “Diario di un manovale”, Edizioni degli animali, 2020, traduzione di Andrea Ponso

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