29 Agosto 2019

Diario veneziano: Jude Law papa scostumato (con paradiso di belle fanciulle) in “The New Pope” di Sorrentino; tutti (ipocriti) contro Polanski; voglio parlare con il figlio di Tarkovskij, autore di un documentario commovente. In appendice, Thomas Mann e un carro di m***a

Nella sua abbacinante semplicità, il primo sketch di The New Pope, divulgato ieri, seduce. Paolo Sorrentino non ha fumi felliniani, né fughe nella bruma del simbolo. È essenziale, essenzialmente cinico, come un pubblicitario di genio. Anche in questo caso, la ‘trovata’ è ottima. Jude Law, in costume smilzo, sguardo che annienta e fisico augusteo, sfila in passarella, in spiaggia, tra turbe di belle fanciulle – il paradiso coranico? –, l’ultima delle quali, inequivocabilmente in calzamaglia da Madonna, sviene, stordita da cotanta divinità. In alternativa, John Malkovich, addobbato da ‘nuovo papa’, dribbla un tripudio di cardinali in estasi. Se Jude ha la faccia spavalda, John la china in ardua concentrazione: chi dei due è figura di Dio? The New Pope è la caramella cinematografica che andrà in onda, prossimamente, su Sky: nel frattempo, alla Mostra del Cinema di Venezia, il primo e il 2 settembre, vanno in anteprima un paio di puntate. Fiction batte cinema. In ogni caso, sarà un successo perché il potere papale, la sottana di Dio, è la sola cosa di cui è merito parlare.

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Una scena da “Andrej Tarkovsky. A cinema prayer”, in scena alla Mostra del Cinema di Venezia

In UK si domandano, Is the political novel dead? Il romanzo “politico”, che indaga l’arte del governo, è morto. Restano i dilettanti del diletto, i borghesi dell’indignazioni, quelli del romanzo ‘sociale’: temi astratti, ben distesi, che fanno felici tutti (es. aiutare il prossimo, proteggere l’ambiente, che brutto il precariato). Al contrario, spopola la fiction “politica”. Di recente è stato pubblicato il trailer di 1994, ultimo capitolo della serie, produzione Sky, in onda, su Sky Atlantic, il 4 ottobre. Le immagini sono bellissime – Stefano Accorsi è sfizioso, malizioso, convincente. La fiction “politica” – si racconta l’alba di Berlusconi, l’impero della Seconda Repubblica – resta, però, “spettacolo”. Gli occhi ammirano, la mente si eccita, tutto resta lì. Il potere del ‘verbo’, che fa accadere le cose, che ordina il caos dando caos all’intelletto, si sta esaurendo.

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Per questo, proprio come in una fiction, l’importante, politicamente, è stupire. Ridurre un decennio in un’ora e mezza di film, un dibattito parlamentare in un cinguettio. Dalla folla dei cinguettanti che si credono aquile, però, manca, terribilmente, un ruggito. La prima cosa che fa un politico è comprarsi uno sceneggiatore che lo faccia diventare un ‘personaggio’ – tutto è teatro fino al delirio (affascinante da osservare, invero) di credere davvero al proprio ruolo. L’uomo sta diventando bidimensionale, le spire del suo cervello sono un immane intestino.

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Roman Polanski è ancora un punto di contraddizione. Prima lo invitano a Venezia, con il film J’accuse, poi la presidente di giuria, Lucrecia Martel, sbotta: “Non lo applaudirò. Non sarebbe giusto nei confronti di tutte le donne che rappresento e delle donne argentine vittime di stupro”. Cosa c’entra Polanski con le “donne argentine vittime di stupro”? Niente. Su di lui grava l’accusa di violenza sessuale perpetrata nel 1977 ai danni di una tredicenne, a casa di Jack Nicholson. Per non sottostare a giudizio, Polanski è scappato in Francia. Ciò non gli ha impedito di esercitare, con lauto successo, la sua arte fino a vincere un Oscar, nel 2003, per la regia de Il pianista, che ovviamente non è andato a ritirare. In effetti, torna sempre a galla questa brutta storia, che si alimenta di ipocrisie. O condono o perdono, non c’è altra via.

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Di padre in figlio. Il 30 e il 31 agosto a Venezia mostrano Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer. Ho avuto il privilegio di vedere il documentario in anteprima. Le immagini sono bellissime. Tarkovskij ha il viso quadrato e gli occhi in grado di ospitare tutto il mondo: in alcune pellicole lo si vede che passeggia tra le spoglie del Rinascimento italiano, e si respira un’aria di eternità, come se l’avessimo avuto, il nostro Paradiso in terra, intriso di sangue e di azzurro, e non ne avremo un altro. Andrej Tarkovskij, autore di film necessari come Andrej Rublëv (1966), Stalker (quarant’anni fa), Nostalghia (1983), era figlio del poeta Arsenij Tarkovskij, sodale di Anna Achmatova e Osip Mandel’stam. Il documentario è realizzato dal figlio di Tarkovskij, che si chiama Andrej pure lui, nipote di Arsenij. Questo legame tra padri e figli, questi nomi che iniziano con la lettera A, mi affascina. Presto spero di poter chiacchierare con il figlio di Tarkovskij.

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Una amica mi ricorda chi sono ricalcando il pezzo di una cosa che ho scritto. Mi convince. Ma non ricordo da dove giunge, da quale libro? Di me sono dimentico.

“Oggi l’ho trovata nuda. Si è liberata delle coperte, si è tolta i vestiti. Nuda, nel letto con le sponde, sembra un passerotto in gabbia. A volte mi pare che la nonna si trasformi. Ora è un passero, domani un topo, dopo domani una iguana – fa paura perché la sua natura, ora, è più vicina al resto degli esseri che all’uomo. A volte, penso, può balzare dal letto e sbranarmi. Oltre a spogliarsi, la nonna si è tolta il pannolone. L’ho vista, di pomeriggio, con le mani sporche di merda: si leccava le dita. Mangiare la propria merda vuol dire che non si avverte più la differenza tra ciò che si ingurgita e ciò che si espelle, non si sente più la necessità di ricordare quello che si vede. La scena non mi sorprende. Quando parlo con la nonna assumo la voce rassicurante di un monaco o di un boia. Candida, tesa, indifferente. Tolgo lenzuola e coperte, le butto nella vasca da bagno. Faccio scorrere l’acqua – immagino torrenti artici, il sotterraneo sussurro dei ghiacci. Riempio una bacinella, spruzzo il sapone, piglio la spugna. Abbasso una sponda del letto. Ruoto mia nonna, in modo da avere il suo culo, floscio, magrissimo, davanti a me. Immagino di benedire un bambino. Non ci vuole un carisma particolare per occuparsi del prossimo, non occorre inspirare Dio, indossare l’estasi dei missionari o degli scout. Lo si fa e basta. Per convenienza sociale, per mero desiderio di pulizia. Con la spugna lavo il culo della nonna, lo pulisco dalle scaglie di merda che si sono indurite, sulle gambe. Faccio tutto a mani nude, sperando, forse, che un’infezione letale mi divori gli arti, la lingua, le mani. Cosa sarebbe di me se non riuscissi più a scrivere? L’importante è che funzionino i denti: scrivere, in fondo, è mordere. Non è la prima volta che maneggio la merda: prima della nonna pulivo quella del nonno. La merda, in fondo, infine, è l’essenza dell’essere umano. L’unica cosa di cui è naturale produttore. Ciò che hai sottratto alla terra, ritorna in forma di merda. Ora capisco la teoria puritana del denaro come ‘sterco del demonio’. Basta togliere la parola ‘demonio’ – che è l’analogo del senso di colpa – e il gioco funziona: tanto guadagni e tanto devi ridare al mondo che ti ha concesso quel guadagno. Se rompi l’equilibrio, vai in blocco intestinale, muori. La merda è il reliquiario di ciò che siamo: cosa sacra e intoccabile. Per questo, il water è simile a un trono e facciamo scomparire gli stronzi nell’acqua, l’elemento più puro e importante della terra. Sono il casto sacerdote della merda di mia nonna. Al contrario del cuore – volgare pompa che fa funzionare un meccanismo umano – è la merda la sintesi dei nostri sentimenti; siamo come caghiamo. Non è il cuore la sede dell’amore, ma il culo, da sempre”.

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Rileggo Thomas Mann, le Considerazioni di un impolitico. La sua lancinante autonomia. “Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”. (d.b.)

*In copertina: Jude Law in “The New Pope” di Paolo Sorrentino

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